L'intervista

Cecilia Sala: «Ho dovuto vedere il lato peggiore dell'umanità»

La giornalista italiana rinchiusa per 21 giorni nelle carceri del regime iraniano si racconta alla Domenica
Francesco Mannoni
31.08.2025 12:00

«Sono una giornalista, mi occupo di esteri, faccio l’inviata nelle aree di crisi e di guerra, lavoro per un quotidiano e per Chora Media, una testata giornalistica solo audio, di podcast, un fenomeno enorme negli Stati Uniti e nel mondo anglosassone. Tante persone, non solo i giovani, preferiscono ascoltare le notizie anziché leggerle». Eroina spericolata o professionista senza paura? Di Cecilia Sala si possono dire entrambe le cose anche se a vederla sembrerebbe più una modella per l’eleganza e il portamento che un’inviata battagliera alla Oriana Fallaci tutta grinta e audacia.

Il 19 dicembre 2024 è stata arrestata in Iran con l’accusa di aver violato le leggi della Repubblica Islamica e rinchiusa nel carcere di Evin. È stata liberata dopo 21 giorni di prigionia. Dopo una breve pausa ha ripreso il suo lavoro e diversi riconoscimenti l’hanno gratificata. La Giuria del Premio Hemingway Lignano Sabbiadoro l’ha scelta come vincitrice nella sezione «Testimone del nostro tempo» per la sua «straordinaria capacità di raccontare il mondo con uno sguardo lucido, empatico e coraggioso, per i suoi reportage da zone di conflitto come l’Ucraina, l’Afghanistan e l’Iran».

Qual è il Paese che conosce meglio, che ha seguito di più nei suoi reportage?
«L’Iran è il Paese al quale sono più affezionata e che seguo da moltissimo tempo, ho tante fonti, tanti amici e tanti contatti. Nel 2022 sono stata in prima linea anche in Ucraina, nel 2021 ero in Afghanistan e sono stata nel sud Sudan di cui i telegiornali raramente parlano, malgrado gli oltre 150mila morti dell’ultima guerra. Purtroppo i paesi in guerra sono tanti in questo momento. Ci sono cose spaventose che fanno sobbalzare. Il mio è ovviamente un mestiere rischioso: i missili ti svegliano di notte e senti per ore i colpi dell’artiglieria. Nei Paesi dove piovono bombe da 5 tonnellate, prima o poi si può essere colpiti e l’attenzione deve essere sempre al massimo, essere il più attenti possibile. È dall’adolescenza che sognavo di fare questo mestiere e non me ne pento nonostante il mio lavoro mi costringa spesso a vedere il lato peggiore dell’umanità».

Che cosa la emoziona maggiormente del suo lavoro?
«Il mio è un mestiere in cui le emozioni abbondano: quando una persona che incontri in un’area di guerra si fida di te, e ti dedica un’ora della sua vita per raccontare cose molto private e molto dolorose, è inevitabile emozionarsi. Probabilmente è questo il motivo per cui ci si affeziona così tanto a questo lavoro, che è quasi una vocazione potrei dire. Vedere le cose con i propri occhi, ascoltare i racconti di prima mano da chi li ha vissuti è impagabile per chi vuole fare questo mestiere, a qualsiasi latitudine del mondo. È questa la molla: poter essere presenti a eventi spesso tragici e spesso anche trasformativi della storia».

Il ricordo più brutto?
«Il mio arresto in Iran e la detenzione nel carcere di Evin, a Teheran. Era la mia ultima trasferta finita male quando mi hanno presa come ostaggio. Sono stata rilasciata l’8 gennaio 2025. Conoscendo come le cose funzionano in Iran immaginavo di essere a rischio. Sin dai primi giorni di detenzione ho creduto che sarei rimasta per anni in quel carcere. La mia liberazione in 21 giorni è stata miracolosa, la più veloce dal 1987 ad oggi, e tuttora le intelligence internazionali - quella tedesca e quella francese, per esempio - si chiedono come abbia fatto il governo italiano ad ottenerla così rapidamente. Sono grata di questo sforzo importantissimo, ed è agli atti il mio ringraziamento per questo successo clamoroso. Ero consapevole che se fosse sopraggiunta una circostanza internazionale come la guerra Israele -Iran non sarei più uscita».

La Repubblica islamica, assorbiti i colpi è ancora in piedi e il programma nucleare iraniano non mi sembra sia stato completamente distrutto

Quando l’hanno arrestata, per quale ragione si trovava in Iran?
«Per la guerra Israele-Iran che da quasi mezzo secolo il mondo ha definito la ''guerra ombra'', e adesso la stiamo vivendo. La Repubblica islamica, assorbiti i colpi è ancora in piedi e il programma nucleare iraniano non mi sembra sia stato completamente distrutto. Dopo il 7 ottobre Israele ha deciso di colpire uno per uno tutti i suoi nemici, e quello che è successo finora e che sta succedendo, mi fa pensare che la guerra sicuramente non è ancora conclusa».

Ma che vita è quella che si vive e Teheran, quella dei giovani specialmente?
«Centinaia di migliaia di ragazze che non indossano più il velo e danno un altro volto della città, testimoniano che non tutto è nero come spesso viene descritto il regime iraniano. I giovani della generazione Zeta, ventenni e adolescenti, sono una generazione che non c’entra nulla con la Repubblica islamica, non hanno nulla a che fare con i rigidi precetti e codici di abbigliamento della Repubblica islamica: basta guardarli. In Iran ci sono novanta milioni di abitanti e non tutti si identificano con gli ayatollah. La gente non sa che il 70% dei laureati nelle materie Stem (quelle scientifiche, tecnologiche e ingegneristiche) in Iran sono donne. Parlare delle ragazze di Teheran come ho fatto in una trasmissione non significa rinnegare tutto quello che ho sempre detto del regime: fare una distinzione fra popolazione e regime, non significa giustificare il regime. Lo scorso dicembre avevo pubblicato dall’Iran alcune foto delle gallerie d’arte e della vita sociale: se non lo avessi scritto, nessuno avrebbe saputo dire che quella città fosse Teheran».

Il suo nuovo libro sarà imperniato sul suo arresto e sulla sua vicenda carceraria a Teheran?
«Il mio nuovo libro - non ha ancora un titolo definitivo - uscirà a breve. Ci stavo già lavorando, quando sono partita per l’Iran lo scorso dicembre. Doveva essere un libro sul Medio Oriente, ma inevitabilmente conterrà anche il racconto della mia detenzione. Non era certo un capitolo previsto ma è accaduto, e ne parlerò perché è una parte della mia trasferta che non posso trascurare».

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