Medicina

Che cos'è l'umanesimo medico?

Il Ticino, come sempre più spesso accade, eccelle in questo ambito, e da ormai 22 anni è culla della Fondazione Sasso Corbaro
© CdT/Gabriele Putzu
Giorgia Cimma Sommaruga
20.11.2022 07:00

La necessaria sensibilità verso la dignità del paziente, nel rispetto della sua sofferenza somatica e psichica, è diventata vieppiù fondamentale nei percorsi di cura a livello mondiale. Il Ticino, come sempre più spesso accade, eccelle in questo ambito, e da ormai 22 anni è culla della Fondazione Sasso Corbaro. Per iniziativa di medici, imprenditori e studiosi la fondazione, specializzata nel campo della cura, è cresciuta e continua a crescere grazie all’appoggio delle autorità del Cantone. Detiene inoltre un grande primato, quello di essere stata la prima fondazione svizzera a dedicarsi alla promozione delle Medical Humanities e dell’etica clinica. L’obiettivo? «Promuovere la formazione, la ricerca, la documentazione, le pubblicazioni e le attività culturali attinenti alle Medical Humanities (umanesimo clinico), all’etica e ai diritti umani», spiega subito Martina Malacrida Nembrini, direttrice.

Di che cosa stiamo parlando

«Le medical humanities, o umanesimo clinico - spiega Martina Malacrida Nembrini -, rispondono alla volontà di introdurre nell’ambito della cura due componenti essenziali, senza le quali la pratica terapeutica rischia di ridursi a un arido intervento tecnico». In primo luogo, continua Malacrida, «i criteri etici che devono opportunamente orientare le decisioni nei casi più problematici; in secondo luogo, la necessaria sensibilità verso la dignità del paziente, nel rispetto della sua sofferenza somatica e psichica».

Emerge così, da una riflessione aperta e transdisciplinare, una visione della medicina che si potrebbe definire un «umanesimo clinico»: in quest’ottica le Medical Humanities si applicano sia alla prassi terapeutica quotidiana, sia a questioni generali d’ordine etico quali, ad esempio, la valutazione dell’impatto delle condizioni socio-economiche nell’ambito dei trapianti e delle biotecnologie. Inoltre, precisa Martina Malacrida, «queste discipline nascono, nella loro forma contemporanea, alla fine degli anni Sessanta negli Stati Uniti, in ambito religioso, con lo scopo dichiarato di umanizzare una medicina che stava vivendo la sua svolta tecno-scientifica, caratterizzata dal progressivo prevalere delle macchine al letto del malato».

La comunicazione

In questo campo, uno degli elementi chiave è quello della comunicazione. Tant’è che nelle «medical humanities - spiega la direttrice -, gli elementi biografici del malato sono particolarmente importanti. La narrazione, il racconto di sé, della propria storia, della propria sofferenza, angoscia, inquietudine, costituiscono l’aspetto profondamente umano che occorre considerare con rispetto. Riconoscere l’altro come persona è la condizione preliminare per prestargli cura, il fondo vitale autentico a partire dal quale i diversi saperi ritaglieranno poi, per astrazione, le proprie competenze».

C’è anche da dire che Malacrida nasce in una famiglia in cui, papà e mamma entrambi impiegati nel campo delle cure mediche, a casa hanno sempre dialogato attorno alle storie di vita e di malattia, «forse per sopravvivere meglio alla pressione psicologica causata dalla gravità di certe prognosi - spiega -, e in questo senso sono fortemente convinta, che la medicina narrativa non aiuti solo il paziente nel suo cammino esistenziale, ma anche il curante stesso. Con i nostri numerosi percorsi di formazione vogliamo dare degli elementi in più per affrontare al meglio le professioni nel campo della cura e la parte comunicativa è uno di questi».

Forte impatto sociale

Le professioni mediche sono - complice la pandemia - ça va sans dire, sempre più colpite dalla sindrome del burnout. Si tratta di una problematica riscontrata sovente tra i professionisti che operano nell’ambiente delle cosiddette «Helping Professions», quelle professioni votate all’ascolto delle esigenze e sofferenze del prossimo, per aiutarlo.

Sono infatti le categorie più a rischio di sviluppare tale sindrome, in quanto l’operatore mette a repentaglio sé stesso, rischiando di farsi assorbire dalle necessità delle persone per essere a disposizione delle loro molteplici richieste. Non a caso, «quella dell’infermiere è una categoria particolarmente a rischio, tanti giovani cadono vittime di questa sindrome, e poi abbandonano la professione», spiega Malacrida. E nel 2021, l’80% delle associazioni nazionali ha denunciato problemi di salute fra i suoi aderenti, dal burnout alla depressione passando per i disturbi del sonno.