Berna-Bruxelles

«Con l'UE manca il coraggio politico»

Perché, dopo Balzaretti, anche Leu ha gettato la spugna? Il parere di due diplomatici navigati
© KEYSTONE / PETER KLAUNZER
Andrea Bertagni
Andrea Bertagni
28.05.2023 13:15

Punto e a capo. I negoziati con l’Unione europea (UE) perdono un’altra pedina. Anche la  Segreteria di Stato e capo missione delle trattative con l’UE Livia Leu, dopo Roberto Balzaretti, che era subentrato nel 2018 a Pascale Baeriswyl, ha lasciato l’incarico. Risultato? Le negoziazioni con l’UE per un’evoluzione degli Accordi bilaterali non avanzano. Anzi, sono ancora a punto morto. «La mia sensazione personale è che Livia Leu abbia deciso di farsi da parte dopo aver visto che la strada dei negoziati con l’UE è ancora lunga e in salita. Non fosse così probabilmente avrebbe continuato», dice Michele Rossi, avvocato ed ex membro della Delegazione che ha negoziato l’accordo Svizzera-UE sulla libera circolazione delle persone.

La questione pare dunque essere solo una. Perché i negoziati non avanzano? Bernardino Regazzoni, ex ambasciatore che ha lavorato per il Dipartimento federale degli affari esteri fin dal 1988, ha una visione ben precisa. «Oggi più che in passato - spiega - credo che sia importante una spinta politica senza la quale gli ostacoli non potranno essere superati». Anche Rossi crede che il nodo sia più politico che tecnico, pur essendoci sul tavolo due temi giuridici indicati come obiettivi da raggiungere da Bruxelles: la ripresa del diritto europeo e il controllo dell’applicazione di tale diritto.

La maggioranza da trovare

«A livello interno - indica Rossi - il Consiglio federale dovrebbe cercare di trovare una maggioranza politica che gli permetta di definire un’intesa accettabile con l’UE. Mi riferisco in particolare a una maggioranza da trovare nei partiti di Centro, di Sinistra e nei sindacati, Visto che l’UDC sarà a mio avviso sempre contraria a qualsiasi intesa con l’UE. Trovata la maggioranza il Consiglio federale dovrebbe in seguito trovare il coraggio di procedere e di presentarsi al voto, pur non disponendo del consenso di tutti i partiti di governo».   

Il coraggio e il cerino

Rossi non parla di coraggio a caso. «Fino ad oggi la sensazione è che all’interno del Consiglio federale non ci sia una gran voglia di esporsi, trattandosi di un tema elettoralmente poco pagante - sottolinea -. Anzi, mi sembra che la tendenza a livello di singoli Consiglieri federali sia quella di evitare posizioni scomode e di lasciare il rischio di trovarsi con il cerino in mano al direttore del Dipartimento degli affari esteri, Ignazio Cassis».  

Convinto che la palla debba passare innanzitutto dal Consiglio federale è anche Regazzoni. «La spinta politica - afferma - dovrebbe prima di tutto arrivare dal Governo, giacché la politica è l’arte di creare delle dinamiche decisionali che abbiano come obiettivo l’interesse di un Paese. Ed è nell’interesse della Svizzera avere dei buoni accordi di vicinato.

In questo caso con l’UE che è il principale mercato di riferimento della nostra economia». L’ex ambasciatore ticinese da questo punto di vista non ha dubbi. «Lo sviluppo delle nostre relazioni con l’Unione europea non è una questione di fede, ma è un dato di fatto vista l’importanza a livello economico del nostro vicino e il fatto che sia saggio avere accordi buoni con appunto i Paesi vicini. Il dibattito in corso andrebbe insomma sdrammatizzato e la questione andrebbe affrontata con pragmatismo». 

Il passato e la prospettiva

Regazzoni ci tiene comunque a contestualizzare meglio il tema. «Stiamo parlando di Accordi bilaterali che sono entrati in vigore ormai una ventina di anni fa e che quindi avrebbero bisogno di un’evoluzione anche per noi, come dimostra ad esempio il tema dell’elettricità. Bisogna inoltre dire che negli anni ’90 e 2000 questi Accordi sono andati a buon fine anche perché l’UE ha mantenuto un approccio condiscendente verso la Svizzera dettato dalla convinzione che prima o poi saremmo entrati nell’UE. Senza questa prospettiva non credo che gli Accordi avrebbero portato allo stesso risultato». 

Venti o trent’anni dopo il quadro è però cambiato.  Drasticamente. «Oggi l’UE ha capito benissimo che in futuro politico di 10-20 anni non arriverà una nostra adesione», precisa Regazzoni. Da qui l’importanza  di «una nostra spinta politica», ribadisce l’ex ambasciatore. La politica come motore per riaccendere i negoziati, dunque. Da innescare internamente. Ma non solo.

Il progetto europeo 

A crederlo è Michele Rossi. «Anche a livello esterno andrebbe fatto un discorso più politico nei confronti di Bruxelles», chiarisce l’ex membro della Delegazione che ha negoziato l’accordo Svizzera-UE sulla libera circolazione delle persone.  Muoversi politicamente su due fronti. Sembra essere questa, secondo Rossi, una delle soluzioni per sbloccare l’impasse. O meglio, il congelamento delle trattative. «Nei nostri confronti l’UE si vede più come un progetto giuridico che politico, e su tale base chiede che le regole siano esattamente le stesse anche nelle collaborazioni con i Paesi terzi come la Svizzera. Ma l’UE, pensando alle sue origini, è soprattutto un progetto politico, i  cui obiettivi sono la pace e il benessere. In altre parole serve a vivere meglio, non ad avere una struttura giuridicamente perfetta. E in un’UE a 27 Stati è evidente che possano esserci alcune differenze».

La coesione continentale

Allontanarsi dall’ossessione degli allineamenti giuridici per rimettere al centro il progetto politico di un’Unione europea, di un Continente coeso e collaborativo. Dovrebbe essere quindi questo, secondo Rossi, il messaggio da portare a Bruxelles. «Credo sia importante riportare il discorso a livello politico  per far passare l’idea di un’UE capace di guardare essenzialmente alla coesione continentale, soprattutto in un periodo come quello attuale di guerra», precisa l’avvocato. Solo così, solo «partendo da un approccio come questo basato sulla cooperazione e la consapevolezza politica condivisa tra UE e Paesi terzi sarà verosimilmente meno complicato trovare soluzioni anche a livello tecnico».  

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