Confessioni di una «primadonna»

Il 6 marzo 1993 Ruth Dreifuss venne contattata dal Partito socialista per sapere se fosse disponibile a candidarsi per il Consiglio federale. Quattro giorni dopo, il 10 marzo 1993, divenne la seconda consigliera federale donna della storia, la prima che avrebbe in seguito assunto la carica di presidente della Confederazione. «Si può quasi parlare di un incidente» dice oggi, trent’anni dopo, in un’intervista concessa a «La Domenica».
Signora Dreifuss, ha festeggiato l’anniversario con una torta con 30 candeline?
«No, anzi, la ringrazio di avermi ricordato questo anniversario. Di sicuro il 10 marzo è una data che ha cambiato la mia vita, ma non sento la necessità di celebrare, un compleanno all’anno è sufficiente».
La precipitosa elezione in Consiglio federale ha cambiato la sua vita in meglio o in peggio?
«In meglio, naturalmente. È stata una svolta straordinaria nella mia vita. Fino a qualche giorno prima non mi era nemmeno passato per la testa che avrei potuto assumere una tale funzione. È stato un concorso di circostanze, un concorso di circostanze sfortunate».
Perché sfortunate?
«Perché è costato a due persone la rinuncia - obbligata in un caso, più o meno volontaria nell’altro - a una grande ambizione. Parlo chiaramente di Christiane Brunner e Francis Matthey».
Queste circostanze le hanno guastato la gioia dell’elezione?
«Sì, sicuramente. È stato difficile accettare di essere candidata a fianco di Christiane Brunner. I giorni che hanno preceduto questa elezione sono stati difficili per tutti, per Francis, per Christiane, per me, per il partito».
Quanto tempo ha avuto per decidere?
«Fui contattata la prima volta il giovedì. Il presidente di una sezione cantonale del PS, con la quale non avevo una relazione diretta, mi chiamò e mi propose di presentare la mia candidatura. Io gli dissi che non era all’ordine di giorno e che oltretutto non mi sembrava il caso di farmi proporre da una sezione che non mi conosceva neanche. Poi è noto che la grande discussione all’interno del partito avvenne domenica. Il giorno dopo, lunedì, il gruppo socialista propose la doppia candidatura di Christiane Brunner e me. Mercoledì, infine, fui eletta. Si può quasi parlare di un incidente, vedendo come le cose si sono precipitate».
Oggi ha ancora contatti con Christiane Brunner?
«Sì, non tanto stretti perché ognuna ha la sua vita, però sì».
Siete in buoni rapporti?
«Certo! Soprattutto sottolineo che durante i dieci anni in cui lei era parlamentare e io consigliera federale abbiamo lavorato molto bene insieme, con molta prossimità».
Oggi, 30 anni dopo, l’elezione di una donna in Consiglio federale non è più qualcosa di straordinario.
«È vero, oggi non sarebbe concepibile immaginare un Consiglio federale senza una consistente rappresentanza femminile. Ciò non toglie che alle donne si continuano a porre domande che agli uomini non si porrebbero. Lo si è visto anche durante l’ultima campagna, quando ci si è chiesti se una donna con bambini piccoli potesse diventare consigliera federale. Ci sono ancora dubbi nei confronti delle donne».
Alle ultime elezioni il PS ha dovuto imporre una donna.
«Il PS vuole essere rappresentato da donne e uomini. Perché le donne sono la metà del cielo, come diceva Mao Tse Tung, ma gli uomini sono l’altra. Quindi è bene che i partiti con due seggi diano spazio al cielo nella sua interezza. Tutti i partiti ci sono arrivati, tranne uno».
Quindi ci sarà la vera uguaglianza quando anche l’UDC avrà una donna in governo?
«Avrei una battuta da fare, ma non gliela lascerei scrivere sul giornale... (ride)».
Le manifestazioni e gli scioperi delle donne servono ancora?
«Certo, io ho partecipato all’organizzazione del primo sciopero nel 1991 e mi rallegro per lo sciopero del 2023. La manifestazione è il posto dove le rivendicazioni possono esprimersi in comune. Dopo segue il paziente lavoro di cambiare le leggi, cambiare le mentalità. Ma a un certo momento è bene riunire i punti di vista e mostrare l’importanza di contrastare le diverse forme di discriminazione. La manifestazione è un buon promemoria».
Parliamo dei consiglieri federali. In quale dei sette si riconosce di più?
«Mi riconosco nel collegio, ovviamente».
Una risposta diplomatica.
«È il politichese, non lo uso spesso, ma a volte è necessario».
Allora le chiedo, come ha reagito all’elezione di Elisabeth Baume-Schneider?
«Con tantissima gioia. La conosco e sono convinta che farà un eccellente lavoro, mi rallegro di vederla all’opera».
Le assomiglia?
«Penso che adesso lei sia nella stessa situazione in cui ero io trent’anni fa. È una fase in cui all’inizio si ha un po’ paura della responsabilità che ci si trova ad assumere, poi ci si rende conto che è straordinario avere la possibilità di agire a questo livello e così ci si rimbocca le maniche e ci si mette al lavoro. È esattamente quello che ho vissuto io, trent’anni fa».
Pensa che ai suoi tempi fosse più facile essere consigliere federale? Oggi Alain Berset finisce sulla prima pagina del Blick non appena prende l’aereo e vola su una zona vietata...
«Non penso che sia cambiato molto. Anch’io ricordo dei periodi in cui finivo spesso sulla prima pagina del Blick o di altri giornali, mentre in altri periodi erano molto gentili con me. È cambiato qualcosa invece a livello di reti sociali. Hanno un effetto amplificatore che effettivamente può rendere le cose più difficili».
Oggi è più facile attaccare un politico.
«Io quando ero in Consiglio federale avevo deciso di non leggere mai le lettere anonime. Avevo chiesto ai miei collaboratori di farlo per me. Mi trasmettevano quella che attiravano l’attenzione su problemi reali e cestinavano le altre. Avevo deciso così per proteggermi, perché non avevo voglia di leggere messaggi aggressivi inutilmente. Non so come funziona oggi, ma se fossi ancora in Consiglio federale deciderei di non essere su nessun social network».
Lei usa i social network?
«No, ho solo Whatsapp per coordinarci in famiglia e per mandarci dei bacini ogni tanto».
Quindi lei dice che già trent’anni fa i consiglieri federali non avevano una vita privata.
«No, eravamo sempre sotto l’occhio dei media - è il loro lavoro ed è giusto così - ma anche dei cittadini, che rispettavano la nostra funzione, le davano una certa dignità, ma si attendevano che noi ci comportassimo in maniera responsabile, degna e che non facesse disonore alla Svizzera».
Oggi è ancora così?
«Esattamente, c’è questo obbligo. Ma è un obbligo leggero, poiché non costringe a cambiare vita o convinzioni. Bisogna solo mostrarsi degni della carica che si ricopre».
Lei cosa pensa quando vede che Alain Berset viene criticato dalla stampa?
«Penso che generalmente le critiche non siano innocenti, in particolare nell’anno elettorale».
Sono attacchi politici?
«L’ha detto lei».
Passiamo a Cademario, dove lei lavorò nel 1958, come ricezionista al Kurhaus.
«Quanti bei ricordi... Amo molto il Malcantone, è una regione così bella, quando lavoravo lì era ancora abbastanza selvaggia, i villaggi erano dei veri villaggi, vissuti, seppur un po’ in via di spopolamento, purtroppo».
Cosa faceva nel suo periodo ticinese?
«Il lavoro era impegnativo, mi prendeva molto, ma nei giorni di congedo scendevo a piedi fino a Bioggio e poi fino a Lugano (al ritorno risalivo in bus con un autista che si chiamava Trezzini). Oppure facevo delle passeggiate nei boschi. Ricordo il sentiero dei filosofi, Arosio, Aranno, la chiesa di Santa Maria d’Iseo, ho molto apprezzato quel periodo».
Non sono tanti i consiglieri federali ad aver lavorato in albergo.
«No, effettivamente».
È un problema che oggi molti politici non hanno mai lavorato al di fuori della politica?
«Sì e no, già ai miei tempi c’erano profili diversi. I veri politici di mestiere erano Jean-Pascal Delamuraz, Flavio Cotti... Ma non Adolf Ogi, non Beat Villiger, non io... Nella stessa squadra c’era un po’ di tutto».
Se non politica, lei cosa si sentiva?
«Sindacalista, con un passato di operatrice sociale, segretaria d’albergo e funzionaria federale alla cooperazione e allo sviluppo».
Oggi a cosa si dedica?
«Mi dedico soprattutto ai temi in cui ho accumulato molta esperienza nel corso della mia lunga vita. Condivido le mie competenze su temi come la salute o la politica della droga, proseguo il mio impegno contro la pena di morte».
È un vantaggio potersi presentare come prima presidente donna della Confederazione?
«Certamente! Uso questo titolo con grande gioia. Proprio l’altro giorno, nel corso di un evento, raccontavo di come rimasi estasiata quando ricevetti la mia carta da lettere con la dicitura «capo del Dipartimento dell’Interno». È fantastico, perché questo permetteva alle mie lettere di superare le barriere dei segretariati e arrivare ai loro destinatari».
A chi scrive?
«Io scrivo per difendere la causa delle persone condannate a morte».
Riceve delle risposte?
«Quasi mai, ma spesso riesco a incontrare ambasciatori, ministri e alte autorità di quei paesi in cui voglio difendere la causa. Penso che non troverei le porte aperte se non potessi presentarmi come ex presidente della Confederazione».
Pensa che un giorno la pena di morte sarà abolita su tutto il pianeta?
«Facciamo passi avanti. Ci sono Paesi che difendono il loro diritto di uccidere le persone a sangue freddo, ma vediamo anche progressi importanti, in particolare in Africa e Asia centrale».
Non riguarda la pena di morte, ma la guerra in Ucraina è un bel passo indietro.
«È un enorme passo indietro. Vorrei semplicemente ricordare che se un secolo fa si riteneva che la guerra, anche di aggressione, facesse parte dei diritti di uno Stato, oggi non è più il caso. Questo cambia le carte in tavola anche per la neutralità elvetica. Quando ci sono un aggressore e un aggredito, non c’è alcuna ragione di trattarli allo stesso modo».
Come ha trascorso la giornata della donna?
«Sono stata al Palazzo delle Nazioni, dove a margine del Consiglio dei diritti dell’uomo ho presentato dei principi di diritto criminale, che mostrano come in tutti gli ambiti la criminalizzazione peggiori le cose e non aiuta le persone. La sera ho avuto il piacere di presentare a un pubblico ginevrino sei donne eccezionali che si battono contro la tortura e per i diritti umani in sei Paesi diversi. Ero molto commossa nel vedere queste donne coraggiose che rischiano la vita per difendere le vittime di violazioni dei diritti dell’uomo».
E il suo 30. anniversario dall’elezione in Consiglio federale, venerdì, come l’ha trascorso?
«Ho incontrato la commissione del Gran Consiglio ginevrino per parlare di politica di droga. Sono la responsabile dell’associazione che mette in pratica un progetto pilota per vedere come si potrebbe regolamentare la vendita della cannabis a Ginevra, in modo da non lasciare tutto in mano a spacciatori o gente che si arrangia come può».
I Paesi Bassi hanno legalizzato la cannabis ma la criminalità non è scomparsa.
«I Paesi Bassi tollerano i coffee shop, ma c’è il problema che io chiamo "della porta davanti e della porta dietro". Mi spiego. Le persone possono entrare in un coffee shop, acquistare la canapa e uscire. Ma la porta dietro, quella dell’approvvigionamento, non è regolamentata. Questo lascia spazio a organizzazioni criminali. Per questo gli stessi Paesi Bassi stanno valutando come correggere questa contraddizione».
Per la Svizzera immagina un sistema simile?
«Il problema è che le convenzioni internazionali sulle droghe non obbligano gli Stati a punire il consumo, ma li obbligano di principio a punire la produzione, il traffico e la vendita. Quindi si tollera il consumo e si chiudono gli occhi sull’origine della cannabis. Non va bene. Per questo vogliamo studiare vari modelli, pur consapevoli che in certi casi potrebbero andare contro le convenzioni internazionali».
Quindi a volte è possibile andare contro le convenzioni internazionali?
«Non si dovrebbe, è spiacevole doverlo fare, ma a volte è necessario. Intendo, non mi piace quando l’Inghilterra dice che la convenzione sui diritti dei rifugiati non è più applicabile in Gran Bretagna. A priori si dovrebbe sempre cercare di rinegoziare per trovare una soluzione migliore. La convenzione sulle droghe è vecchia di più di 60 anni, un periodo nel quale sono successe tante cose. Andrebbe quindi rivista. Se non fosse possibile, beh.., pazienza, noi prenderemmo comunque la decisione che pensiamo possa meglio aiutare le persone, ridurre i rischi e ridurre l’influenza delle organizzazioni criminali».
Concludendo, mi sembra di capire che lei non è mai veramente andata in pensione.
«Effettivamente. Però percepisco una gran bella pensione come ex consigliera federale».
Non ha mai pensato di godersela in spiaggia?
«No, questa è la vita, è la mia vita».