«Contro Putin è possibile ottenere un mandato d’arresto»
Dice che spiccare un mandato di cattura internazionale contro Vladimir Putin è possibile. E che è rimasta impressionata nel «vedere ancora fosse comuni. Questo non lo avrei mai immaginato». Carla Del Ponte nella sua lunga carriera ha tenuto testa ai peggiori criminali di guerra. Soprattutto durante il suo lavoro da procuratrice capo del Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia. E poi nelle indagini sulle stragi in Ruanda. Oggi osserva sgomenta quanto accade in Ucraina.
Il premier britannico Boris Johnson ha dichiarato a Die Welt che
esiste «una profonda analogia tra il comportamento di Putin e quello di Milosevic
in Serbia negli anni ‘90». Lei ha raccolto le prove per incastrare Slobodan
Milosevic. È davvero così, esiste una analogia?
«Sì, l’ho notata anche io subito. Milosevic si è sempre difeso dicendo
che combatteva i terroristi e che il suo attacco agli albanesi del Kosovo era
dunque legittimo. Un po’ quello che oggi dice Putin quando parla di "denazificazione" per cercare una legittimità assolutamente illegittima».
Quindi è possibile spiccare un mandato d’arresto internazionale per
Putin?
«Ho visto che il pubblico ministero della Corte penale internazionale,
Karim Khan, ha aperto un’inchiesta dopo la richiesta di 39 Paesi che hanno
sottoscritto la procedura di attivazione,
ma soprattutto dopo la richiesta della stessa Ucraina, altrimenti non ci
sarebbe giurisdizione. Khan dovrebbe condurre l’inchiesta nel tempo più veloce
possibile per arrivare a un atto d’accusa ma soprattutto a ottenere un mandato
d’arresto internazionale per Putin e gli altri responsabili politici e militari
di questi crimini. Crimini che sono palesi».
E dopo il mandato d’arresto che succede?
«È ovvio che Putin non verrà arrestato fintanto che resta in Russia.
Però quantomeno si provocherebbe un importante contraccolpo negativo, non
potrebbe più uscire dal suo Paese e capirebbe che ha tutto il resto del mondo
contro. Il mandato d’arresto dunque è senza dubbio possibile. Ma non c’è solo
Putin, ci sono anche gli altri responsabili, gli alti militari che sono in
guerra. Questa è un’occasione d’oro per rendere giustizia alle vittime».
Lei ha più volte denunciato il fatto che per perseguire i crimini di
guerra occorre innanzitutto la volontà politica degli Stati. Pensa che davanti
all’aggressione di Putin, si possa trovare la volontà di perseguire il leader
russo e i suoi generali?
«La volontà politica degli Stati, e lo abbiamo sperimentato sia con la
ex Jugoslavia che con il Ruanda, è fondamentale. Se c’è, si riescono a
raggiungere gli obiettivi, altrimenti è tutto inutile. Lo abbiamo visto in
Siria dove tutto si è fermato perché il Consiglio di sicurezza non ha potuto
decidere, non c’è stata alcuna risoluzione. Non si è fatto proprio niente».
È vero che i crimini di guerra non possono essere prescritti? Allora
perché un presidente come Putin pensa di poter agire impunito?
«Sì, i crimini di guerra non possono essere prescritti. Tanto è vero
che per le stragi in Cambogia si è proceduto trent’anni dopo. Io spero che ciò
accada anche per la Siria di Assad, sostenuta dalla Russia di Putin, membro
permanente del Consiglio di sicurezza».
Dopo la dissoluzione della ex Repubblica federale jugoslava che ha
scatenato i peggiori rigurgiti nazionalistici, dopo aver toccato con mano
l’orrore in Ruanda, pensava di vedere ancora una volta una sorta di guerra
civile?
«Io non avrei mai pensato si potesse arrivare a una situazione simile.
È peggio che nella ex Jugoslavia. Quando ho visto le prime fosse comuni, forse
per una deformazione professionale, ho cercato di capire se le vittime che
stanno seppellendo siano state identificate. Altrimenti bisognerà
disseppellirle per dar loro un nome. Se non è stato fatto sarebbe un grave
errore perché bisogna provare che si tratta di civili e soprattutto deve essere
possibile, ed è possibile, conoscere la causa della morte».
Nel suo primo libro La caccia ha raccontato la sua esperienza dal
1999 al 2007 a capo del ministero pubblico nel Tribunale per i crimini di
guerra insediato dall’ONU. Una esperienza che le consentito di incastrare non
solo Milosevic ma anche Théoneste Bagosora, capo militare degli hutu e
responsabile del genocidio ruandese. Qualcuno di questi criminali ha mai
dimostrato un rimorso o un pentimento?
«La maggior parte degli accusati, pure condannati a pene severe, si
sentono degli eroi. Nella ex Jugoslavia io ho visto solo un ex ministro croato
pentirsi e cooperare. Poi, dopo una pesante condanna, si è suicidato in
prigione. Io penso che lo abbia fatto sia perché portava il peso della colpa ma
forse anche per liberare la famiglia che ancora viveva a Belgrado e aveva paura
che la sua scelta gli creasse problemi. Questa naturalmente è una mia
opinione».
Dunque nessun pentimento?
«No. Gli altri trovavano sempre un motivo. Ricorderò sempre l’unica
donna che abbiamo fatto condannare: Biljana Plavsic, professore di biologia
all’università di Sarajevo, politica serbo-bosniaca. L’avevo interrogata
diverse volte e lei ogni volta, con argomentazioni legate al suo lavoro,
tentava di farmi credere che i serbi fossero una etnia migliore».
Nel suo nuovo libro sulla sua lunga battaglia per la giustizia
racconta il senso di frustrazione per la mancanza di volontà politica nel
perseguire i crimini internazionali. E critica l’ONU di aver fallito. Perché si
è arrivati a questo punto?
«L’ONU è stato un organismo importantissimo dopo la Seconda guerra
mondiale. E ha funzionato egregiamente. Ma è rimasto quello di allora. E senza
nessun cambiamento oggi è ingessato, inadeguato. Non ha più forza e ha bisogno
di una profonda riforma».
Rispetto a La caccia e Gli impuniti, il suo nuovo libro «Non sono
un eroe: la mia lunga battaglia per la giustizia» parla di delusioni. Perché?
«Parlo sulla scorta della mia esperienza nei tribunali internazionali
e ribadisco che l’ONU è diventato un organismo troppo politicizzato, soprattutto
il Consiglio di sicurezza è bloccato da veti e procedure. Ormai si occupa più
di aiuti umanitari che dell’obiettivo per cui è nato: mantenere e coltivare il
valore della pace. Prendiamo quanto accade in Ucraina, le trattative deve farle
il segretario generale ONU».
Da componente della Commissione delle Nazioni Unite sulle violazioni
dei diritti in Siria ha detto che in sei anni, nonostante le prove raccolte,
non si è fatto nulla. Lei è andata via delusa. Davvero la comunità
internazionale non ha preso coscienza della violazione dei diritti umani?
«La comunità internazionale sa perfettamente come stanno le cose. Ma a
seconda dell’aria politica che gira cambia idea. E io devo dire che attualmente
il rispetto dei diritti umani e il perseguimento dei crimini di guerra contro
l’umanità non sono più la priorità degli Stati. Purtroppo. E questo lo abbiamo
sperimentato con la Siria. Spero, visto che sta cambiando lo scenario e tutti
sono contro Putin che ha aiutato Assad, che qualcosa cambi».
In una guerra ci sono sempre morti. In guerra si commettono crimini.
Da una parte e dall’altra. Perché spesso si tende ad accusare i vincitori e non
i vinti, che pure qualche responsabilità l’avranno avuta?
«No, nella ex Jugoslavia abbiamo proceduto contro i serbi perché
allora era più facile terminare le inchieste e chiudere gli atti d’accusa, era
invece più difficile perseguire gli altri, che pure avevano commesso crimini
gravi. Abbiamo tentato e in alcuni casi abbiamo ottenuto condanne anche
dall’altra parte. Ma sia i tribunali internazionali ad hoc che la corte
permanente internazionale non hanno mai fatto distinzione sui crimini
commessi».
Dopo la sua esperienza si è fatta sicuramente un’idea su come potrebbe
essere riformata la giustizia internazionale. O va bene così?
«La giustizia va benissimo così come è, deve solo essere resa
completamente indipendente dalla politica, deve potersi muovere autonomamente».
Lei ha detto: non sono un’eroina ma un magistrato che ha sempre
lavorato per conto delle vittime. Cosa ha provato umanamente davanti alla
condanna di un criminale?
«Niente, emotivamente non ho mai provato niente. Ho sempre solo
pensato d’aver fatto il mio dovere. E poi ho sempre avuto poco tempo, dovevo
subito pensare al prossimo caso. L’unica volta che io e la mia equipe di lavoro
siamo rimasti emotivamente coinvolti è stato quando c’è stato l’arresto di Milosevic.
Perché riuscire a ottenere l’arresto di un presidente di una nazione è stato
veramente un grosso successo. Dopo tutto il lavoro volevamo festeggiare, ma
abbiamo trovato solo bicchieri di carta e un vino rosso schifoso. Lo ricorderò
sempre».
Da magistrato, prima in Ticino poi a livello federale, lei si è
occupata a lungo di reati finanziari e criminalità organizzata. Vedendo gli
ordinamenti e le norme dei diversi Paesi pensa che davvero, come più volte è
stato notato, che la Confederazione debba avere più strumenti contro la mafia?
«Da quanto vedo, la Svizzera su questo fronte ha fatto tanto. Si parla
molto delle infiltrazioni mafiose ma io vorrei vedere i processi perché solo
con i processi e le sentenze contro il crimine organizzato si può capire
davvero la situazione».
Una domanda personale: ha mai avuto paura durante la sua attività che
sicuramente ha anche assorbito la sua vita quotidiana e familiare?
«Sì, però per fortuna la mia paura è durata poco e sempre dopo
l’avvenimento visto che l’ho sempre scampata. Mi hanno sparato a Belgrado ma
ero in una vettura blindata e poi in elicottero in Colombia».
Se si volta indietro, dopo tanti anni, non si è mai chiesta: ma chi me
lo ha fatto fare?
«No, mai. Si può sempre fare di più. Quando ero
stanchissima perché non riuscivo a ottenere gli arresti o perché qualcosa
andava male pensavo di mollare. Ma ho l’abitudine di dormirci sopra. E siccome
dormo bene, quando mi rialzo sono carica. E volto pagina. Sempre».