L'intervista

«Contro Putin è possibile ottenere un mandato d’arresto»

Parla l'ex procuratrice capo del Tribunale penale internazionale, Carla Del Ponte
Mauro Spignesi
13.03.2022 06:00

Dice che spiccare un mandato di cattura internazionale contro Vladimir Putin è possibile. E che è rimasta impressionata nel «vedere ancora fosse comuni. Questo non lo avrei mai immaginato». Carla Del Ponte nella sua lunga carriera ha tenuto testa ai peggiori criminali di guerra. Soprattutto durante il suo lavoro da procuratrice capo del Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia. E poi nelle indagini sulle stragi in Ruanda. Oggi osserva sgomenta quanto accade in Ucraina.

Il premier britannico Boris Johnson ha dichiarato a Die Welt che esiste «una profonda analogia tra il comportamento di Putin e quello di Milosevic in Serbia negli anni ‘90». Lei ha raccolto le prove per incastrare Slobodan Milosevic. È davvero così, esiste una analogia?
«Sì, l’ho notata anche io subito. Milosevic si è sempre difeso dicendo che combatteva i terroristi e che il suo attacco agli albanesi del Kosovo era dunque legittimo. Un po’ quello che oggi dice Putin quando parla di "denazificazione" per cercare una legittimità assolutamente illegittima».

Quindi è possibile spiccare un mandato d’arresto internazionale per Putin?
«Ho visto che il pubblico ministero della Corte penale internazionale, Karim Khan, ha aperto un’inchiesta dopo la richiesta di 39 Paesi che hanno sottoscritto la procedura di attivazione,  ma soprattutto dopo la richiesta della stessa Ucraina, altrimenti non ci sarebbe giurisdizione. Khan dovrebbe condurre l’inchiesta nel tempo più veloce possibile per arrivare a un atto d’accusa ma soprattutto a ottenere un mandato d’arresto internazionale per Putin e gli altri responsabili politici e militari di questi crimini. Crimini che sono palesi».

E dopo il mandato d’arresto che succede?
«È ovvio che Putin non verrà arrestato fintanto che resta in Russia. Però quantomeno si provocherebbe un importante contraccolpo negativo, non potrebbe più uscire dal suo Paese e capirebbe che ha tutto il resto del mondo contro. Il mandato d’arresto dunque è senza dubbio possibile. Ma non c’è solo Putin, ci sono anche gli altri responsabili, gli alti militari che sono in guerra. Questa è un’occasione d’oro per rendere giustizia alle vittime».

La volontà politica degli Stati, e lo abbiamo sperimentato sia con la ex Jugoslavia che con il Ruanda, è fondamentale. Se c’è, si riescono a raggiungere gli obiettivi, altrimenti è tutto inutile

Lei ha più volte denunciato il fatto che per perseguire i crimini di guerra occorre innanzitutto la volontà politica degli Stati. Pensa che davanti all’aggressione di Putin, si possa trovare la volontà di perseguire il leader russo e i suoi generali?
«La volontà politica degli Stati, e lo abbiamo sperimentato sia con la ex Jugoslavia che con il Ruanda, è fondamentale. Se c’è, si riescono a raggiungere gli obiettivi, altrimenti è tutto inutile. Lo abbiamo visto in Siria dove tutto si è fermato perché il Consiglio di sicurezza non ha potuto decidere, non c’è stata alcuna risoluzione. Non si è fatto proprio niente».

È vero che i crimini di guerra non possono essere prescritti? Allora perché un presidente come Putin pensa di poter agire impunito?
«Sì, i crimini di guerra non possono essere prescritti. Tanto è vero che per le stragi in Cambogia si è proceduto trent’anni dopo. Io spero che ciò accada anche per la Siria di Assad, sostenuta dalla Russia di Putin, membro permanente del Consiglio di sicurezza».

Dopo la dissoluzione della ex Repubblica federale jugoslava che ha scatenato i peggiori rigurgiti nazionalistici, dopo aver toccato con mano l’orrore in Ruanda, pensava di vedere ancora una volta una sorta di guerra civile?
«Io non avrei mai pensato si potesse arrivare a una situazione simile. È peggio che nella ex Jugoslavia. Quando ho visto le prime fosse comuni, forse per una deformazione professionale, ho cercato di capire se le vittime che stanno seppellendo siano state identificate. Altrimenti bisognerà disseppellirle per dar loro un nome. Se non è stato fatto sarebbe un grave errore perché bisogna provare che si tratta di civili e soprattutto deve essere possibile, ed è possibile, conoscere la causa della morte».

Nella ex Jugoslavia io ho visto solo un ex ministro croato pentirsi e cooperare. Poi, dopo una pesante condanna, si è suicidato in prigione. Io penso che lo abbia fatto sia perché portava il peso della colpa ma forse anche per liberare la famiglia che ancora viveva a Belgrado

Nel suo primo libro La caccia ha raccontato la sua esperienza dal 1999 al 2007 a capo del ministero pubblico nel Tribunale per i crimini di guerra insediato dall’ONU. Una esperienza che le consentito di incastrare non solo Milosevic ma anche Théoneste Bagosora, capo militare degli hutu e responsabile del genocidio ruandese. Qualcuno di questi criminali ha mai dimostrato un rimorso o un pentimento?
«La maggior parte degli accusati, pure condannati a pene severe, si sentono degli eroi. Nella ex Jugoslavia io ho visto solo un ex ministro croato pentirsi e cooperare. Poi, dopo una pesante condanna, si è suicidato in prigione. Io penso che lo abbia fatto sia perché portava il peso della colpa ma forse anche per liberare la famiglia che ancora viveva a Belgrado e aveva paura che la sua scelta gli creasse problemi. Questa naturalmente è una mia opinione».

Dunque nessun pentimento?
«No. Gli altri trovavano sempre un motivo. Ricorderò sempre l’unica donna che abbiamo fatto condannare: Biljana Plavsic, professore di biologia all’università di Sarajevo, politica serbo-bosniaca. L’avevo interrogata diverse volte e lei ogni volta, con argomentazioni legate al suo lavoro, tentava di farmi credere che i serbi fossero una etnia migliore».

Nel suo nuovo libro sulla sua lunga battaglia per la giustizia racconta il senso di frustrazione per la mancanza di volontà politica nel perseguire i crimini internazionali. E critica l’ONU di aver fallito. Perché si è arrivati a questo punto?
«L’ONU è stato un organismo importantissimo dopo la Seconda guerra mondiale. E ha funzionato egregiamente. Ma è rimasto quello di allora. E senza nessun cambiamento oggi è ingessato, inadeguato. Non ha più forza e ha bisogno di una profonda riforma».

Parlo sulla scorta della mia esperienza nei tribunali internazionali e ribadisco che l’ONU è diventato un organismo troppo politicizzato, soprattutto il Consiglio di sicurezza è bloccato da veti e procedure

Rispetto a La caccia e Gli impuniti, il suo nuovo libro «Non sono un eroe: la mia lunga battaglia per la giustizia» parla di delusioni. Perché?
«Parlo sulla scorta della mia esperienza nei tribunali internazionali e ribadisco che l’ONU è diventato un organismo troppo politicizzato, soprattutto il Consiglio di sicurezza è bloccato da veti e procedure. Ormai si occupa più di aiuti umanitari che dell’obiettivo per cui è nato: mantenere e coltivare il valore della pace. Prendiamo quanto accade in Ucraina, le trattative deve farle il segretario generale ONU».

Da componente della Commissione delle Nazioni Unite sulle violazioni dei diritti in Siria ha detto che in sei anni, nonostante le prove raccolte, non si è fatto nulla. Lei è andata via delusa. Davvero la comunità internazionale non ha preso coscienza della violazione dei diritti umani?
«La comunità internazionale sa perfettamente come stanno le cose. Ma a seconda dell’aria politica che gira cambia idea. E io devo dire che attualmente il rispetto dei diritti umani e il perseguimento dei crimini di guerra contro l’umanità non sono più la priorità degli Stati. Purtroppo. E questo lo abbiamo sperimentato con la Siria. Spero, visto che sta cambiando lo scenario e tutti sono contro Putin che ha aiutato Assad, che qualcosa cambi».

In una guerra ci sono sempre morti. In guerra si commettono crimini. Da una parte e dall’altra. Perché spesso si tende ad accusare i vincitori e non i vinti, che pure qualche responsabilità l’avranno avuta?
«No, nella ex Jugoslavia abbiamo proceduto contro i serbi perché allora era più facile terminare le inchieste e chiudere gli atti d’accusa, era invece più difficile perseguire gli altri, che pure avevano commesso crimini gravi. Abbiamo tentato e in alcuni casi abbiamo ottenuto condanne anche dall’altra parte. Ma sia i tribunali internazionali ad hoc che la corte permanente internazionale non hanno mai fatto distinzione sui crimini commessi».

La giustizia va benissimo così come è, deve solo essere resa completamente indipendente dalla politica

Dopo la sua esperienza si è fatta sicuramente un’idea su come potrebbe essere riformata la giustizia internazionale. O va bene così?
«La giustizia va benissimo così come è, deve solo essere resa completamente indipendente dalla politica, deve potersi muovere autonomamente».

Lei ha detto: non sono un’eroina ma un magistrato che ha sempre lavorato per conto delle vittime. Cosa ha provato umanamente davanti alla condanna di un criminale?
«Niente, emotivamente non ho mai provato niente. Ho sempre solo pensato d’aver fatto il mio dovere. E poi ho sempre avuto poco tempo, dovevo subito pensare al prossimo caso. L’unica volta che io e la mia equipe di lavoro siamo rimasti emotivamente coinvolti è stato quando c’è stato l’arresto di Milosevic. Perché riuscire a ottenere l’arresto di un presidente di una nazione è stato veramente un grosso successo. Dopo tutto il lavoro volevamo festeggiare, ma abbiamo trovato solo bicchieri di carta e un vino rosso schifoso. Lo ricorderò sempre».

Da magistrato, prima in Ticino poi a livello federale, lei si è occupata a lungo di reati finanziari e criminalità organizzata. Vedendo gli ordinamenti e le norme dei diversi Paesi pensa che davvero, come più volte è stato notato, che la Confederazione debba avere più strumenti contro la mafia?
«Da quanto vedo, la Svizzera su questo fronte ha fatto tanto. Si parla molto delle infiltrazioni mafiose ma io vorrei vedere i processi perché solo con i processi e le sentenze contro il crimine organizzato si può capire davvero la situazione».

Mi hanno sparato a Belgrado ma ero in una vettura blindata e poi in elicottero in Colombia

Una domanda personale: ha mai avuto paura durante la sua attività che sicuramente ha anche assorbito la sua vita quotidiana e familiare?
«Sì, però per fortuna la mia paura è durata poco e sempre dopo l’avvenimento visto che l’ho sempre scampata. Mi hanno sparato a Belgrado ma ero in una vettura blindata e poi in elicottero in Colombia».

Se si volta indietro, dopo tanti anni, non si è mai chiesta: ma chi me lo ha fatto fare?
«No, mai. Si può sempre fare di più. Quando ero stanchissima perché non riuscivo a ottenere gli arresti o perché qualcosa andava male pensavo di mollare. Ma ho l’abitudine di dormirci sopra. E siccome dormo bene, quando mi rialzo sono carica. E volto pagina. Sempre».

Carla Del Ponte nel 2007 alla sua scrivania. © KEYSTONE/AP
Carla Del Ponte nel 2007 alla sua scrivania. © KEYSTONE/AP
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