Cosa insegna la Formula 1 sulla produttività umana

C’è un nesso tra età e prestazione? Quando uno sportivo o un essere umano raggiungono il loro picco «produttivo»? E perché è importante saperlo? Ne parliamo con Giovanni Pica, professore ordinario di economia all’Università della Svizzera Italiana (USI), autore, con Fabrizio Castellucci e Mario Padula, dello studio scientifico The age productivity gradient: Evidence from a sample of F1 drivers (2011), che utilizzando la Formula 1 come un laboratorio ha lo scopo di studiare come la produttività varia con l’età.
Partiamo dai box: cosa l’ha spinta, nel 2011, a studiare la produttività partendo dal la Formula 1?
«Si tratta di un laboratorio particolarmente interessante per studiare la relazione tra produttività ed età, un tema di grande rilevanza alla luce del progressivo invecchiamento della popolazione. In generale, è molto difficile disporre di dati che consentano di misurare la produttività individuale: nella maggior parte dei contesti, infatti, è quasi impossibile isolare il contributo del singolo individuo all’output complessivo di un’impresa o di un team. Nel caso della Formula 1 (o in generale dello sport) abbiamo invece accesso a dati estremamente dettagliati e precisi sulle prestazioni di ciascun membro del team, che permettono di analizzare in modo unico come la produttività individuale evolva con l’età».
Di cosa tratta, in sintesi, lo studio?
«Il lavoro studia la relazione tra età e produttività utilizzando i dati dei piloti di Formula 1. I risultati ottenuti mostrano che la produttività cresce fino ai 30-32 anni e poi inizia a diminuire, seguendo un andamento a U rovesciata. Nel lavoro confrontiamo le stime, basate su dati individuali, con quelle ottenute usando misure medie di produttività e di età a livello di squadra, come spesso avviene negli studi su imprese e lavoratori. Mostriamo come le stime basate su dati aggregati a livello di team risultino meno affidabili e talvolta fuorvianti. Il confronto mostra quindi quanto sia importante disporre di misure individuali della produttività per capire come l’età influenzi la produttività».
Il vostro studio mostra un picco di performance intorno ai 30-32 anni. Oggi, in un mercato del lavoro che invecchia, crede che questo valga anche fuori dai circuiti?
«I lavori empirici che utilizzano dati abbinati tra lavoratori e imprese confermano la presenza di un andamento a U rovesciata: fuori dai circuiti la produttività cresce fino ai 30-40 anni, poi tende a calare dopo i 50. Tuttavia, si noti che stimare la relazione su dati relativi a lavoratori e imprese resta difficile perché la composizione per età della forza lavoro può riflettere le strategie delle imprese, non solo la produttività. Per esempio, un’azienda che sta crescendo rapidamente può decidere di assumere molti giovani lavoratori per sostenere l’espansione. In questo caso, la produttività media dell’impresa potrebbe aumentare semplicemente perché l’azienda è in una fase positiva - ha nuovi investimenti, migliori tecnologie e più domanda - non necessariamente perché i giovani sono più produttivi. Al contrario, un’impresa in difficoltà potrebbe smettere di assumere e avere una forza lavoro più anziana, apparendo quindi «meno produttiva» solo perché è in declino. In entrambi i casi, la relazione osservata tra età media dei dipendenti e produttività dell’impresa riflette le strategie aziendali (assunzioni, innovazione, ciclo economico), non l’effettivo legame tra età e produttività individuale. Questo rende difficile capire se le differenze di produttività dipendano davvero dall’età dei lavoratori o piuttosto dalle scelte e dalle condizioni delle imprese. Per questo è importante che lo studio sulla Formula 1 confermi la presenza di un andamento a U rovesciata tra età e produttività: perché fornisce una prova «pulita» e credibile di un risultato spesso difficile da mostrare in altri contesti».
In Formula 1 il mezzo tecnico conta quasi quanto il pilota. Nelle imprese, quanto «fa la macchina» e quanto conta il fattore umano?
«Il settore e la tipologia di occupazione sono fattori importanti nel determinare la relazione tra età e produttività. Per esempio, nel caso di occupazioni usuranti fisicamente, il declino avviene più precocemente, così come nel caso di occupazioni nelle quali le competenze dei lavoratori sono soggette a una rapida obsolescenza. In altri ambiti, invece, il declino delle abilità fisiche e cognitive e l’obsolescenza delle competenze possono essere compensati, almeno in parte, dall’accumulazione di esperienza e di competenze consolidate all’interno dell’impresa portando il picco di produttività in avanti».
Le nuove generazioni entrano tardi nel mercato del lavoro. Questo sposta in avanti anche il picco di produttività o ne riduce la durata?
«Il calo della produttività dipende sia dal declino delle abilità fisiche e cognitive sia dall’obsolescenza delle competenze. Se l’ingresso tardivo nel mercato del lavoro è accompagnato dall’acquisizione di competenze aggiornate, è plausibile che la curva della produttività si sposti in avanti. A ciò contribuisce anche il fatto che l’esperienza raggiunge livelli significativi in età più avanzata. La durata complessiva del picco potrebbe ridursi dato che il declino dipende più dall’età biologica che dall’età d’ingresso».
Il vostro studio distingue tra abilità individuale, contesto e compatibilità pilota-team. Se lo portassimo in azienda, potremmo dire che il “fit” con il datore di lavoro è più importante dell’età?
«Il fit con il datore di lavoro è molto importante in quanto sposta verso l’alto la relazione tra produttività ed età, cioè innalza il livello complessivo di produttività a ogni età, senza però alterarne significativamente la forma ad U rovesciata».
La tecnologia oggi cambia più rapidamente che nei decenni passati. In che modo questo accelera o ritarda il declino della produttività con l’età?
«Questo accelera il declino della produttività con l’età a causa della più rapida obsolescenza delle competenze. Oggi i lavoratori devono aggiornarsi costantemente e continuare a formarsi nel corso della loro carriera per contrastare questo fenomeno».
Da Hamilton a Verstappen, la Formula 1 racconta la tensione tra esperienza e istinto. Nella vita lavorativa, chi vince oggi: l’esperienza o la velocità d’apprendimento?
«La Formula 1 è una metafora perfetta: Hamilton ha accumulato anni di esperienza e intuizione, Verstappen combina talento naturale e rapidità di apprendimento. Allo stesso modo nel lavoro, l’esperienza resta importante, ma in un contesto in rapida evoluzione la velocità con cui si acquisiscono nuove competenze può fare la differenza. In pratica: chi unisce conoscenze solide e capacità di adattarsi rapidamente ha più probabilità di “vincere” nel mercato del lavoro moderno».
Lei insegna all’USI: come trasferisce ai giovani economisti la lezione di quel «lontano» studio?
«Da un lato, il messaggio che cerchiamo di trasmettere all’USI è che nel mercato del lavoro odierno - e ancora di più in quello che ci attende - non basta più solo formarsi: è fondamentale aggiornarsi costantemente. Solo così si può evitare un precoce declino della produttività e restare competitivi in un contesto in continua evoluzione. Dall’altro, utilizzo questo studio per illustrare agli studenti (di master e dottorato) le difficoltà associate all’identificazione dei nessi causali tra vari fenomeni. Come spiegato sopra nel caso della relazione tra produttività e età, l’utilizzo di dati aggregati a livello di impresa rende difficile capire se le differenze di produttività dipendano davvero dall’età dei lavoratori o piuttosto dalle scelte e dalle condizioni delle imprese. Un approccio naif all'analisi dei dati può portare a conclusioni fuorvianti, confondendo correlazioni con causalità. È essenziale adottare metodi rigorosi per evitare tali errori e trarre conclusioni valide e affidabili».
Ritorno al presente. Di cosa si occupa attualmente all’USI?
«Ho condotto e tuttora conduco ricerche su vari aspetti del funzionamento del mercato del lavoro. Mi sono concentrato sull'analisi degli effetti della regolamentazione del mercato del lavoro, in particolare riguardo ai costi di licenziamento, e sullo studio della mobilità sociale, esaminando le dinamiche di ascensore sociale e le disuguaglianze salariali. Ho inoltre investigato l'impatto dei movimenti migratori su salari e opportunità occupazionali, nonché le dinamiche occupazionali all'interno dei gruppi industriali, esplorando come la struttura del gruppo influenzi le politiche occupazionali delle imprese del gruppo».
