Da Balerna agli abissi marini, a caccia di relitti

«Profondità 450 metri, rotta 060, testa - 15 gradi». Una voce artificiale scandisce le coordinate della telecamera calata sul fondale di fango, in una nevicata di plancton biancastro. Siamo a bordo del «Daedalus», un catamarano a vela di 21 metri a poppa del quale sventola la bandiera svizzera, al largo delle coste della Liguria. La postazione di controllo del rover subacqueo occupa un intero angolo della cabina interna e somiglia piuttosto al quadro comandi di un aeroplano. Tutti i movimenti sono affidati ad un joystick, mentre su un grande monitor circondato dagli strumenti di navigazione si svela il paesaggio sottomarino. Un grongo argentato sfreccia davanti alla telecamera, illuminato dai fari del drone subacqueo, si rifugia sotto un cumulo di cocci. La telecamera lo segue e scopre una distesa di anfore romane accatastate, alcune rotte, altre intatte. È il carico di una nave naufragata 2000 anni fa, la cui struttura di legno si é totalmente dissolta nell’acqua. Il suo profilo è rimasto affidato unicamente al carico che trasportava, ad una profondità impossibile per qualsiasi archeologo subacqueo.
Sei mesi tra La Spezia e Cadice
«Le anfore erano le taniche da 25 litri dell’antichità», spiega sorridente Guido Gay, 86 anni insospettabili, proprietario del Daedalus e pioniere della moderna esplorazione subacquea affidata ai minibatiscafi a controllo remoto. «Trasportavano vino e olio soprattutto, avevano un marchio di proprietà e forme caratteristiche che ci permettono oggi di datarle con precisione, in un arco di tempo che va dal IV secolo avanti, al IV secolo dopo Cristo».

L’ultima avventura del Daedalus si è conclusa da poco e lo ha visto impegnato per sei mesi su una rotta di 2300 miglia, dalla sua base di La Spezia a Cadice e ritorno, passando dalle isole Baleari. Il catamarano ha seguito la scia delle navi romane che attraversavano regolarmente il Mediterraneo, spingendosi anche oltre Gibilterra, per il commercio via mare con le provincie occidentali dell’Impero.
«I Romani, ma anche i Greci prima di loro, erano grandi navigatori», afferma sicuro Gay, che ha ormai oltre vent’anni di esperienza con l’archeologia subacquea. «Le loro grandi navi a vela quadra si spingevano anche al largo e ben oltre le mitiche Colonne d’Ercole. Ho voluto estendere la ricerca dopo aver trovato le mie prime anfore a oltre 500 metri di profondità e fuori vista della costa. Ho potuto così aggiungere il numero 45 al mio libro dei relitti greco-romani, confermando che si praticava già una navigazione diretta, attraversando il Golfo del Leone. Un unico ritrovamento certifica anche la qualità delle navi dell’epoca: in alto mare potevano naufragare soltanto per difetti strutturali, mentre sotto costa rischiavano di essere portate più facilmente dal maltempo sugli scogli».
Un carico di olio, vino e salsa di pesce
In età imperiale romana, la rotta principale verso ovest era quella che da Pozzuoli, il grande emporio marittimo di Roma, portava a Cadice. A Pozzuoli, e in parte anche a Ostia, arrivavano navi onerarie di 20 metri cariche di grano dalle coste dell’Africa e dall’Egitto, destinate a sfamare una popolazione in crescita esplosiva, che nella capitale superava abbondantemente un milione di abitanti. Ma la rotta verso i porti della Gallia e dell’Iberia portava soprattutto olio, vino e la salsa di pesce fermentata chiamata garum (simile alla colatura di alici), una leccornia dell’epoca. Il grande terminale di raccolta, di partenza e di arrivo sul fronte occidentale era quello di Cadice, che si trova già sulla costa atlantica spagnola. Ogni nave poteva portare in media fino a 3.000 anfore, stivate al suo interno.
L’esplorazione subacquea di Guido Gay è cominciata nel 1980 con il Pluto-1, un minibatiscafo collegato alla superficie con un cavo, capace già di scendere e lavorare oltre i 1000 metri di profondità, una novità assoluta per l’epoca. «L’ho chiamato Pluto», spiega il suo inventore,«perché sembrava un cane. Aveva due eliche laterali che sembravano orecchie, una testa, un corpo, il cavo, che poteva essere la coda o il guinzaglio. Eppoi scendeva in fondo al mare, come ad annusare oggetti perduti e dimenticati».
«Fare tutto con niente, o quasi niente»
Tutti i mezzi progettati e realizzati da Guido Gay vengono costruiti come prototipi artigianali, uno per uno, ma sono frutto di soluzioni tecnologiche di assoluta avanguardia. Dopo il Pluto-1 sono venuti il Pluto Palla, sferico, progettato per scendere oltre i 2000 metri e poi l’ultimo nato, un gioiellino hi-tech chiamato Multipluto, con una pinza manipolatrice e la capacità di lavorare su fondali di 4000 metri, sempre manovrato dalla superficie.
«Fare tutto con niente, o quasi niente. Questa è la mia filosofia», commenta Gay con sorridente minimalismo, molto inglese. «Il Daedalus ha l’autoposizionamento dinamico, il radar a scansione laterale, tutto quello che serve per calare le sonde in acqua. Quello che faccio da vent’anni, praticamente da solo, altri possono farlo soltanto con una vera nave oceanografica e una squadra di tecnici e specialisti».
Viene spontaneo chiedersi quale legge protegga i relitti sottomarini svelati in profondità dalle luci di un mezzo subacqueo. Le leggi nazionali disciplinano la materia entro i limiti del demanio mariittino e delle acque territoriali. In Italia, per esempio, i beni storici e archeologici sono proprietà dello Stato, ogni commercio è vietato, così come é vietato asportare oggetti da un relitto, e allo scopritore può essere eventualmente accordata solo una percentuale sul valore di un oggetto segnalato e recuperato. I relitti che si trovano sott’acqua da almeno 100 anni e per una fascia estesa 12 miglia oltre i limiti nazionali sono invece tutelati dalla Convenzione Unesco 2001 sulla protezione del patrimonio storico e culturale. I relitti militari affondati, per un tacito accordo comune in molti mari del mondo, sono considerati sacrari intoccabili dedicati ai caduti di guerra.
I danni delle reti e strascico
Sui tanti relitti scoperti tra Francia e Italia, Gay si è sempre limitato a scattare fotografie o a filmare immagini, convinto che si debba toccare il meno possibile. Solo in pochi casi ha accettato di lavorare direttamente con la Soprintendenza interessata e gli archeologi. Con loro a bordo, ha fatto riemergere un’anfora o un oggetto utile alla datazione o all’esame del carico trasportato, come è avvenuto in Corsica e in Sardegna.
Anche a grandi profondità, purtroppo, si possono fare grandi danni, a volte senza volerlo. «Le telecamere del Pluto sono lì a confermarlo», spiega Gay. «Le reti a strascico dei pescatori possono fare a pezzi vasi e anfore di un relitto archeologico». La segnalazione precisa alla Soprintendenza e alla Capitaneria puo’ contribuire ad evitarlo, istituendo aree vietate a questo tipo di pesca. La ricerca di Guido Gay è impegnata anche su questo fronte.