Ticino

Da «trans» a «cornuta», le offese quotidiane nell'epoca degli insulti sdoganati

Fioccano le denunce per reati contro l’onore, ma ora una cauzione vuole fermare gli abusi
© Gabriele Putzu
Andrea Stern
Andrea Bertagni
Andrea SterneAndrea Bertagni
21.04.2024 11:59

In un’epoca in cui gli insulti sono ormai sdoganati, sorprende che la giustizia debba ancora confrontarsi praticamente ogni giorno con i cosiddetti reati contro l’onore. Solo in Ticino, l’anno scorso 240 persone sono state imputate per il reato di ingiuria, 113 per diffamazione e 30 per calunnia. Numeri importanti, dietro ai quali si celano storie curiose come quelle che vi riportiamo qui sotto, ma anche un grande impegno in tempo ed energie per dei procuratori pubblici già oberati di lavoro a causa del generale aumento della criminalità.

È davvero il loro compito perseguire chi dà dello scemo al proprio compagno di bevute al bar? Probabilmente no. Ed è per questo motivo che nella modifica del Codice di procedura penale entrata in vigore all’inizio del 2024 è stata introdotta la possibilità di chiedere il versamento di una cauzione a chi sporge denuncia per un reato contro l’onore. Una cauzione che ammonta a circa 500 franchi e che ha l’obiettivo di scoraggiare i «querulomani», ovvero quelle persone che intasano la giustizia con denunce molto spesso non giustificate. Nel caso in cui invece la denuncia dovesse sfociare in un decreto d’accusa, la cauzione viene restituita al querelante.

Il Consiglio federale, nel difendere la novità, evidenzia che «in relazione a tali reati spesso l’impulso a denunciare scaturisce più dal desiderio di vendetta personale che dall’effettiva lesione di un bene giuridico». Ovviamente non sempre, ma «se prevalgono tali motivi di denuncia, è giustificato esigere dal querelante un anticipo prima che si attivi l’apparato di perseguimento penale».

L’applicazione della norma è a discrezione del Ministero pubblico, che è libero di decidere se chiedere la cauzione, «considerando, tra l’altro, la rilevanza della causa e la situazione finanziaria del querelante».

Qualcuno ha gridato alla limitazione dell’accesso alla giustizia. Ma il Consiglio federale spiega che «l’introduzione della possibilità di esigere un anticipo delle spese è stata accolta positivamente dalla maggioranza dei partecipanti alla consultazione». Non solo, «alcuni hanno chiesto di estendere l’opzione ad altri reati».

Danno del transessuale all’ex compagna di liceo

È offensivo dare del transessuale a una persona eterosessuale? In un primo tempo il procuratore pubblico Zaccaria Akbas aveva ritenuto che non lo fosse, poiché tale epiteto «non rende la persona disprezzabile dal punto di vista del suo valore come essere umano». Ma in una sentenza di recente pubblicazione la Corte dei reclami penali ha rovesciato il verdetto, giudicando che il contesto in cui era stato inserito il commento lo rendeva «dispregiativo e sprezzante». Colui che lo ha espresso deve quindi essere sanzionato, alla pari di coloro che l’hanno condiviso apponendo «Mi piace» su Instagram.

È infatti attorno a un post sul popolare social network che ruota la vicenda affrontata da pubblico ministero e giudici. Tutto parte dall’intervista che una ragazza ha rilasciato nell’ambito della sua partecipazione a un concorso scientifico e che è stata pubblicata su Instagram. Un suo ex compagno di liceo l’ha vista e ha postato il commento «E’ trap bro», cui altri tre ex compagni hanno messo «mi piace».

Inizialmente la ragazza non vi ha fatto caso, perché ignara del significato del commento. Ma un paio di mesi dopo un altro compagno le ha spiegato che il termine «trap» costituisce un insulto a sfondo sessuale. Si tratta di un epiteto offensivo utilizzato per descrivere «una persona anatomicamente uomo che passa da donna». Un transessuale, in pratica.

Sentendosi lesa nella propria dignità, la ragazza ha quindi sporto denuncia con l’obiettivo dichiarato, più che altro, di ottenere le scuse dai suoi ex compagni di classe, con i quali già da tempo aveva un pessimo rapporto. Ma il Ministero pubblico ha liquidato la denuncia della giovane con un non luogo a procedere, ritenendo che fosse tardiva. La ragazza ha impugnato il decreto e la Corte dei reclami penali le ha dato ragione, rimandando l’incarto al Ministero pubblico. Ma questi ha emesso un nuovo decreto di non luogo a procedere, questa volta con la motivazione che a suo dire il termine «trap» non costituirebbe un’esternazione diffamatoria «perché tale commento non era atto ad esporre (la ragazza) al disprezzo in quanto essere umano».

La ragazza non è stata d’accordo. Sosteneva che quel termine a sfondo sessuale pubblicato su Instagram, quindi accessibile a tutti, aveva lo scopo di offenderla, di denigrarla e di ledere il suo onore in un momento in cui avrebbe ricevuto le attenzioni dei media per un suo intervento in un contesto scientifico.

E in effetti la Corte dei reclami penali, tornando a esprimersi in merito, ha riconosciuto che «di per sé, designare una persona come trans rispettivamente travestito non è lesivo dell’onore della persona interessata, non trattandosi manifestamente di un fatto immorale o non etico». Tuttavia, in questo caso il termine «trap» è stato utilizzato «con il fine evidente di colpire e umiliare» l’ex compagna di classe. «Non c’è infatti alcun nesso, né diretto né indiretto, tra il termine ed il contesto dove è stato scritto», ovvero un concorso in ambito scientifico.

Si tratta quindi di un’ingiuria, evidentemente condivisa da chi ha messo «mi piace». Per questo motivo la Corte dei reclami penali ha annullato il decreto di non luogo a procedere e rinviato l’incarto al procuratore pubblico Zaccaria Akbas, ordinandogli di procedere con l’emanazione di un decreto d’accusa a carico dei quattro giovani.

Le scrivono «cornuta!» e il Tribunale le dà ragione

Maria (nome di fantasia) strabuzza gli occhi. Forse non ha letto bene. Eppure… eppure nell’SMS che le è appena arrivato da un numero sconosciuto c’è scritto proprio «cornuta!» con tanto di punto esclamativo. Questa volta lo sguardo le rimane appiccicato allo schermetto del telefono cellulare a lungo. Anche se scritta una volta sola, quella parola, «cornuta!», le rimbomba in testa dieci, cento, mille volte. Il pensiero corre, e non può fare altrimenti, a suo marito. Che, secondo chi le ha scritto il messaggio, la starebbe tradendo con un’altra. Suo marito? La sta tradendo? No, un momento. Non può essere. A meno che… Maria va in panico. Anche perché non sa chi le ha scritto l’SMS. Non sa come questa persona possa avere il suo numero. E se fosse una persona che la odia e che magari potrebbe farle ancora del male, questa volta anche fisicamente?

Prima però deve chiarirsi con suo marito… Possibile che? No, non vuole neanche pensarci, ma ormai è troppo tardi. Come un tarlo, quel «cornuta!» con tanto di punto esclamativo non se ne va più via dalla sua testa. Rimane lì. Inchiodato anche nei giorni seguenti. Anche quando prova a parlarne con suo marito. Che non la prende bene, alza la voce, urla e se ne va sbattendo la porta. No, così non può più andare avanti. È impossibile. Deve fare qualcosa.

Decide quindi di sporgere querela contro ignoti per diffamazione e ingiuria. È il 16 febbraio 2023. Maria va in Magistratura.

Due mesi dopo però la procuratrice pubblica Valentina Tuoni, che ha preso in mano l’incartamento, decreta un non luogo a procedere. In pratica, un nulla di fatto. Maria però non ci sta. Non si dà per vinta. Quel «cornuta!» continua a perseguitarla. Come non potrebbe? Così fa ricorso al Tribunale d’appello e un anno dopo lo vince. Sì, la Corte dei reclami penali, presieduta da Nicola Respini, ordina alla magistrata di identificare, per quanto ancora possibile, il mittente dell’SMS e di chiarire i motivi che lo avrebbero spinto a tacciare Maria di «cornuta».

Nella storia di Maria solo il nome è di fantasia. Tutto il resto - l’SMS, il suo contenuto, gli attacchi di panico, la destabilizzazione dell’equilibrio familiare, le preoccupazioni, la querela, il non luogo a procedere, il ricorso e il parere del Tribunale d’appello - è tutto vero. È tutto scritto nero su bianco nella sentenza con la quale lo scorso marzo la Corte dei reclami si occupa di uno dei tanti casi di diffamazione e ingiuria che ogni anno accadono nel cantone. Casi che nella maggior parte delle volte passano sotto traccia, vengono spazzati via dall’attualità più preminente, ma sono comunque vissuti intensamente e a volte drammaticamente da chi li subisce. Vere ferite personali. Che a volte non si cicatrizzano mai. Perché fanno male. A volte molto male.

Nel dare torto alla procuratrice pubblica, il Tribunale d’appello specifica che il termine «cornuta!» è stato usato per colpire la querelante in modo particolare alludendo al comportamento del marito. L’intento non era quello di denigrare il marito della querelante ma la querelante stessa. Che non solo è stata lesa nel suo onore, ma le ha anche provocato attacchi di panico e destabilizzato l’equilibrio famigliare. «Agli atti, tuttavia - si legge nella sentenza - non vi è alcunché né in merito alla persona che avrebbe scritto l’SMS in oggetto, né in merito allo scopo di tale messaggio, non avendo il procuratore pubblico eseguito alcun accertamento».

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