L'intervista

De Rosa: «Non serve una nuova struttura»

Il consigliere di Stato è favorevole all'ospedale universitario in Ticino – Ma pensa a un polo diffuso
© CdT/Gabriele Putzu
Prisca Dindo
04.06.2023 15:30

Vent’anni fa sembrava un’utopia. Ma poi, tassello dopo tassello, ha iniziato a prendere forma. A consolidarsi. Oggi il polo biomedico di Bellinzona è una realtà che dà lavoro a più di cinquecento collaboratori. Per completare il quadro, ora alla Capitale mancherebbe soltanto l’ospedale universitario, da insediare perché no nel futuro nosocomio regionale che sorgerà fra meno di dieci anni alla Saleggina. L’idea, rilanciata nel febbraio 2022 sul Corriere del Ticino dal direttore dell’Istituto di ricerca in biomedicina Davide Robbiani, sta sempre più prendendo piede all’ombra dei castelli. Gode del sostegno del mondo della ricerca, certo, ma anche di parte della politica. A partire dal Municipio cittadino, il cui sindaco Mario Branda si è esposto a più riprese, l’ultima delle quali sulle colonne del CdT nell’imminenza delle elezioni cantonali. Al di là degli appetiti della Capitale, l’idea di un ospedale universitario in Ticino piace anche a Raffaele De Rosa. «Ma ciò non significa costruirne uno», spiega il direttore del Dipartimento della sanità e della socialità.

Perché secondo lei è importante avere un ospedale universitario?
«I vantaggi sono molteplici. Oltre a quelli formativi, permetterebbe di aumentare l’attrattività dell’Ente ospedaliero cantonale (EOC) come datore di lavoro. Grazie all’aumento della qualità della ricerca clinica e di quella applicata, vi sarebbe un ulteriore rafforzamento delle cure, a beneficio dei pazienti. Genererebbe anche un importante indotto economico e faciliterebbe la ricerca di finanziamenti, così come l’acquisizione di fondi anche privati. Non da ultimo, permetterebbe di accedere a reti di competenza nazionale e internazionali».

Perché il Ticino finora non ha giocato un ruolo in questo ambito?
«Non sono d’accordo con questa valutazione. Il Ticino ha saputo essere protagonista, in primis con la costituzione della Facoltà di biomedicina all’Università della Svizzera italiana; anche sul piano della ricerca, e penso in particolare agli istituti affiliati, giochiamo un ruolo di spicco sul piano internazionale. Due ingredienti essenziali – la formazione e la ricerca – per ambire al riconoscimento «universitario», a cui se ne aggiunge un terzo, quello di una categorizzazione riconosciuta e condivisa sul piano nazionale. Nell’ambito dei lavori della Conferenza delle direttrici e dei direttori cantonali della sanità, abbiamo sostenuto la proposta, già di compromesso, che collocherebbe l’EOC in «seconda fascia», quella di «ospedale di formazione universitaria». Un compromesso su cui ancora si sta discutendo a livello nazionale, in seno alla Conferenza svizzera delle scuole universitarie».

Nei giorni scorsi lei ha dichiarato che il momento è maturo per la rivendicazione di un vero e proprio ospedale universitario: perché?
«Non parlerei di rivendicazione, ma piuttosto di valutazione: ritengo sia tempo di procedere con la costituzione di un gruppo di lavoro per chiarire gli obiettivi, i cambiamenti da attuare, i costi e i benefici di questa operazione. Questo non appena sarà formalizzata la classificazione citata prima».

Il modello che si potrebbe seguire è quello del Chuv di Losanna, come hanno dichiarato al Corriere del Ticino Davide Robbiani e Franco Cavalli?
«È prematuro entrare nel merito. Come detto, occorre attivare un gruppo di lavoro che possa approfondire il tema, consapevoli che una parificazione con i cinque ospedali universitari tradizionali sarà comunque impresa ardua».

Di recente gli ospedali universitari di Basilea, Berna, Losanna, Ginevra e Zurigo hanno lanciato l’allarme: per loro il rischio di una catastrofe finanziaria è dietro l’angolo. Non è che in realtà questo sia un momento infelice per la nascita di un nuovo ospedale universitario?
«Tutti gli ospedali sono sotto pressione dal profilo finanziario ed è difficile dire se per gli ospedali universitari il problema sia più acuto: assicurano certo anche un grosso impegno formativo e nella ricerca, ma dispongono altresì di risorse supplementari. E inoltre, sfatiamo un mito: avere un ospedale universitario in Ticino non significa costruire un nuovo ospedale. La sfida è invece quella di portare il Ticino a ottenere il marchio «universitario», grazie ai partner presenti sul territorio (EOC, USI, istituti di ricerca)».

I premi di cassa malati seguono l’evoluzione dei costi del sistema sanitario nel suo complesso e l’incremento dei costi nel settore ospedaliero stazionario è meno marcato rispetto all’ambulatoriale

In generale, che impatto potrebbe avere l’apertura di un ospedale universitario sui premi di cassa malati?
«I premi di cassa malati seguono l’evoluzione dei costi del sistema sanitario nel suo complesso e l’incremento dei costi nel settore ospedaliero stazionario è meno marcato rispetto all’ambulatoriale. È difficile dire che tipo di impatto possa avere un ospedale universitario in questa dinamica. È però vero che le casse malati riconoscono oggi tariffe superiori agli ospedali universitari».

Unimedsuisse, il gremio che unisce la medicina universitaria, cosa pensa dell’ipotesi ticinese?
«Come detto, sul tavolo c’è una proposta di compromesso sulla classificazione della tipologia di ospedali che recepisce anche le criticità espresse da Unimedsuisse».

Quali saranno i prossimi passi?
«Attendiamo il consolidamento della classificazione a livello nazionale. In seguito sarà necessario radunare attorno al tavolo tutti i partner interessati, attraverso la costituzione del gruppo di lavoro».

Dove potrebbe sorgere una struttura del genere? Bellinzona ha già messo le mani avanti…
«L’idea è quella di puntare su un ospedale universitario multisito. La forza dell’EOC risiede proprio nel concetto di multisito, con cure di prossimità su tutto il territorio e le cure più specialistiche concentrate in un polo in cui siano raggruppate le competenze necessarie a prendere a carico le casistiche più rare».

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