L'intervista

Ernesto Sirolli, imprenditori si nasce o si diventa?

Economista e politologo, celebre per il suo discorso «Shut Up and Listen» con cui ha raggiunto circa 4 milioni di visualizzazioni sulla piattaforma TEDx, sarà ospite di ated il prossimo 5 ottobre a Lugano
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Marcello Pelizzari
01.10.2023 06:00

Il prossimo 5 ottobre, presso l’Asilo Ciani di Lugano, sarà protagonista dell’ated innovation day. Per parlare di imprenditorialità, ma anche per osservare le presentazioni – in formato speed date – dei sei finalisti selezionati nell’ambito del Project Innovation, iniziativa promossa proprio da ated e rivolta alle start-up di casa nostra. Stiamo parlando di Ernesto Sirolli, classe 1950, vera e propria istituzione del settore. Abruzzese, economista e politologo, ha concentrato i suoi studi sullo sviluppo economico locale. Potremmo definirlo un facilitatore, pensando anche al Sirolli Institute for International Enterprise Facilitation fondato nel 1985. In qualità di oratore pubblico, per contro, ha guadagnato i riflettori grazie al suo discorso per la piattaforma TEDx, Shut Up and Listen, con cui ha raggiunto circa 4 milioni di visualizzazioni. Lo abbiamo intervistato.

Cominciamo con una domanda apparentemente banale: imprenditori si nasce o si diventa?
«Sono anni che mi diverto, al riguardo. Prendendo in giro i professori che insegnano Entrepreneurship, imprenditorialità. Li prendo in giro perché tutti questi professori, di origine anglosassone, sostengono che la parola entrepreneur sia di origine francese. Ecco, io li prendo in giro e mi arrabbio pure un pochino, visto che noi abbiamo una parola, in italiano, che se tu la vedi scritta accanto a quella francese è praticamente la stessa: imprenditore. E così mi sono detto: qual è la parola madre da cui derivano entrambe? Per anni mi sono divertito a cercarla, trovandola a Londra, alla Royal British Library, in un dizionario. E l’origine evidentemente è latina, prima ancora indoeuropea. L’imprenditore, di fatto, è colui che afferra per primo un’opportunità. Quindi sì, venendo alla domanda, imprenditori si nasce. Perché è un aggettivo, una qualità. È come dire che uno è coraggioso. E attenzione: per i latini non c’era nessuna connotazione di affari. Lo stesso per i britannici, a suo tempo. Prima del 1860, la sola volta che il termine venne usato fu in un libro del 1460, nel quale un nobile veniva descritto con la parola entrepreneur. Era, appunto, intraprendente in battaglia».

Questione risolta, dunque. Ma allora perché, come ha fatto lei, inventare un metodo per far emergere lo spirito imprenditoriale nelle persone?
«Lo spirito imprenditoriale è un tratto distintivo del carattere. Ma l’imprenditorialità deve essere organizzata, altrimenti difficilmente uno può trasformare la propria passione in lavoro. Ed è proprio questo l’aspetto sul quale ho lavorato per 45 anni».

Ed è il motivo per cui ated l’ha invitata a Lugano…
«Sì, quando hanno visto che cosa insegno, e come, mi hanno chiesto di passare dal Ticino. E di valutare il lavoro che i ragazzi sotto l’egida di ated svolgono. Sarà il ventottesimo Paese, la Svizzera, in cui presenterò il mio metodo».

Molti imprenditori di successo, soprattutto in America, hanno avviato la loro attività prima ancora di laurearsi. In questo senso, quindi, e ribadito che imprenditori si nasce, quali competenze devono sviluppare i ragazzi di oggi per diventare, ad esempio, il nuovo Steve Jobs?
«Questa, indubbiamente, è l’era degli imprenditori. Imprenditori che vengono descritti come gli esploratori della nostra epoca, mentre i manager sono i coloni che, in un secondo momento, organizzano tutto ciò che è stato scoperto. La chiave dei nostri anni è la sostenibilità. Utilizziamo tecnologie, al momento, vecchie anche di cento anni. Ma l’utilizzo che ne facciamo non è sostenibile, pensando che al mondo siamo 8 miliardi. Gli imprenditori di oggi, dunque, devono trovare modi per avere cura delle risorse e delle persone. Per educare, anche. È un’opportunità straordinaria, perché si tratta di reinventare tutto ciò che abbiamo conosciuto finora».

Che ruolo può avere, in questo senso, la Svizzera?
«Prendete i ragazzi di ated, con una passione smisurata per la robotica. Sono ragazzi eccezionali, competono in tutto il mondo. E la Svizzera può e deve avere cura di questi ragazzi, coltivandone il talento. Il vostro è un Paese pulito, semplice, che ha a cuore il destino delle persone. Applicando questa cura anche al talento, la Confederazione farà grandi cose».

Perché un imprenditore ha bisogno di cura?
«Perché trasformare un’idea o una passione in un’azienda di successo non è un compito facile. Soprattutto, non è qualcosa che un imprenditore può fare da solo. Lo dice la storia. Non esiste un singolo imprenditore che, per conto proprio, è riuscito a metter su un’azienda di successo. Ho studiato le cento imprese più grandi e iconiche al mondo. E ho sempre trovato chi, su un fronte o un altro, internamente poteva dire di no a Gates, Jobs e via discorrendo. A chi viene da noi con un’idea, per dire, noi chiediamo: chi sei tu nella cosiddetta trinità della gestione? Sei la persona di prodotto, di mercato o di finanza? Perché solo creando una squadra, solo mettendo al posto giusto le persone, è possibile vendere un’idea e, allo stesso tempo, badare ai soldi. È questo il principio di una start-up. Altrimenti, una passione rimane una passione. Un hobby. E non un lavoro vero».

Sicuramente, il modo in cui è stata pubblicizzata la storia di Apple era sbagliato. Jobs, senza Wozniak, non sarebbe stato nessuno. Ma anche senza Valentine, uno dei primi investitori. Erano tre persone che, di fatto, decisero di lavorare assieme

È anche vero che, da questa parte dell’Atlantico, noi europei siamo cresciuti con il mito degli americani che, alla Steve Jobs, costruivano un impero partendo dal garage di casa. Era tutto fumo, quindi?
«Sicuramente, il modo in cui è stata pubblicizzata la storia di Apple era sbagliato. Jobs, senza Wozniak, non sarebbe stato nessuno. Ma anche senza Valentine, uno dei primi investitori. Erano tre persone che, di fatto, decisero di lavorare assieme. Tanti italiani ed europei, spesso, mi chiedono: che cos’hanno gli americani che a noi manca? Come fanno a mettere su queste imprese straordinarie? È un fatto culturale. Gli americani fanno business come gli italiani fanno pranzo. È un’esperienza divertente, conviviale. Gli americani parlano di affari anche per strada, coinvolgendo perfetti sconosciuti. È una specie di sport collettivo. Come collettivo è il pranzo della domenica in Italia. Un fatto di cultura, fra ricette, aneddoti, racconti, storia dei piatti. Un regalo che viene condiviso, diciamo. A Silicon Valley provate a entrare in un qualsiasi Starbucks, prendetevi un caffè – orribile, per quanto mi riguarda – con un amico e iniziate a parlare di un’idea. Qualcuno, sicuramente, si volterà e vi dirà: ma che meraviglia questa cosa, conoscete Mark? Dovreste conoscerlo, impazzirebbe per una cosa così. Al che vi direte: e chi diavolo è Mark? Le grandi imprese nascono in questo modo. Coinvolgendo più persone. Un concetto, questo, che spero possa essere ripreso pure in Svizzera. La Confederazione è molto avanti, va detto. Nel vostro Paese c’è precisione, c’è solidarietà, c’è un facile accesso alle finanze. E c’è amore per le cose».

Chiudiamo con una considerazione: perché in Europa abbiamo un altro concetto di fallimento rispetto all’America? In America, spesso, fallire fa parte del percorso, del processo di crescita. Qui, no. Possibile?
«Quarant’anni fa inventai una figura, quella dell’agevolatore di impresa. Pagato da fondazioni, grandi società, ma anche Comuni e Regioni. Una figura volta ad aiutare chiunque abbia un’idea imprenditoriale. Oggi, beh, lavoriamo in questo modo in oltre 400 comunità sparse per il mondo. E abbiamo aiutato ad avviare 55 mila imprese. È capitato spesso, a me o a un agevolatore, che in un determinato contesto saltasse fuori quello che aveva avuto diverse idee potenzialmente geniali ma in un modo o nell’altro non le aveva concretizzate. E veniva dipinto, all’interno della comunità, come un fallito. E noi, in tutta risposta, abbiamo sempre ribadito: quella persona non è mai arrivata in fondo perché non c’eravamo noi. Perché non ha avuto il necessario accompagnamento. Perché, come dicevamo prima, non ha beneficiato della triade. Puoi pure stare in America, in un contesto che in un certo senso difende il fallimento o non mortifica chi sbaglia, ma da solo non ce la farai mai. Mai. Agli italiani ripeto sempre: chi era il primo commercialista di Enzo Ferrari? Sua madre. Nessuno, tuttavia, ne ha mai parlato veramente. E questo perché è sempre stata più vendibile l’immagine, mitologica, dell’imprenditore che sa fare tutto. Non è vero. Non stiamo parlando di uomini straordinari. Ma di persone con un’intuizione».

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