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Fra i militari (anche ticinesi) che si preparano alle missioni all'estero

La pace si può insegnare e imparare, ce ne siamo accorti a Stans-Oberdorf: «Fieri di aiutare»
© CdT / Gabriele Putzu
Andrea Bertagni
Andrea Bertagni
17.03.2024 06:00

La pace si può insegnare e imparare. In un mondo attraversato da guerre vicine e lontane, oggi scosso, sospeso e impaurito per il conflitto in Ucraina, c’è chi ogni giorno si impegna affinché ci siano persone capaci di mantenere la pace ed evitare le guerre. Bryan Ciapponi, Fabio Rebello, Amelie Gabioud e Riccardo Battaglia sono tutti ticinesi e hanno poco più di 20 anni. Tra tre settimane andranno in Kosovo. Un Paese ancora fragile protetto dall’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), che non ha ancora completato il suo percorso di stabilizzazione. I quattro ragazzi appoggiano gli elmetti e i giubbotti antiproiettile sulla fila di tavoli in fondo all’aula. Con la lezione di oggi impareranno a prestare i primi soccorsi in caso di infarto, ictus e attacco epilettico. Il loro istruttore, Domenico Bertolino, anche lui ticinese, li guarda soddisfatto. Bertolino è già stato nei Balcani. Sempre come maestro. Per verificare come i suoi allievi riescono a passare dalla teoria alla pratica. «Dopo aver scelto di fare il militare voglio andare all’estero per fare qualcosa per gli altri», afferma candidamente Amelie Gabioud, capelli rossi annodati in due trecce. La sua istruzione non è una passeggiata. Durerà 12 settimane. È entrata qui, nel centro di competenza SWISSINT dell’esercito svizzero a Stans-Oberdorf, a gennaio come volontaria. Perché qui tutti sono volontari. La pace, del resto, si deve scegliere e perseguire. Oggi piove sulla piazza d’armi. Le nuvole che coprono le montagne del canton Nidvaldo non vogliono ancora andarsene dalle vette.

L’ONU interviene solo quando...

Alla pace non si arriva però dall’oggi al domani, come dimostrano i continui appelli caduti nel vuoto di Papa Francesco, l’ultimo dei quali lanciato in favore dell’Ucraina proprio domenica scorsa su queste pagine. Non si arriva dall’oggi al domani e quando accade non è detto che sia duratura. O che questa fragilità non possa essere sempre momentanea come attestano le continue provocazioni in Corea, una regione in cui non a caso fin dal 1953 la Svizzera è presente come osservatore con 5 ufficiali. Anche in Africa ci sono Paesi continuamente sull’orlo del baratro. Che sanno di esserlo e per questo chiedono una mano all’ONU. È (normalmente) la condizione sine qua non. Solo quando viene invocato il suo aiuto l’ONU scende in campo con le sue forze umanitarie, forze che, forse non tutti lo sanno, hanno ricevuto il premio Nobel per la pace nel 1988. I comandanti del centro di competenze SWISSINT, Christoph Fehr (che è colonello SMG ) e dell’istruzione, Adrian Staub (anche lui colonello SMG) lo scandiscono bene. Così come specificano bene come sia necessario l’avvallo della politica federale prima di ogni missione svizzera nel mondo per la promozione della pace.

Fehr, occhi azzurri e quasi trasparenti, ha comandato le Forze speciali e, prima di arrivare a Stans sette mesi fa, ha diretto la pianificazione dell’esercito della gestione della pandemia da coronavirus. Nell’esercito svizzero la rotazione continua di cariche e impieghi è la regola. Fehr è anche andato in Kosovo e come lui anche suo figlio. Nell’ufficio di Staub il foglio su cui sono segnate tutte le formazioni garantite dal centro è invece così grande che occupa una parete. Il comandante si avvicina alle piccole caselle colorate che rappresentano ognuna un corso e dice. «La nostra attività è talmente intensa che per i miei collaboratori non ci sono troppe vacanze». È serio e faceto insieme.

L’allenamento si fa replicando

Alla pace non si arriva dall’oggi al domani e il suo mantenimento non può essere improvvisato. Ecco perché qui nulla è lasciato al caso. Al di là della strada che taglia in due la piazza d’armi sono state posate due file di container. Sono una sopra l’altra e sembrano formare una muraglia. Dentro alloggiano e lavorano le forze di pace svizzere come se invece che a Stans-Oberdorf fossero all’estero. Perché i container sono gli stessi. Uguali e identici. Poco lontano, a pochi metri, è stato costruito un villaggio con delle casette in legno. Questa è invece una riproduzione di ciò che possono trovare i soldati una volta lontane dalla Svizzera. Anche qui ci si allena a interagire con le persone grazie ad attori e figuranti che impersonano di volta in volta popolazioni di nazioni differenti. Ognuna con le proprie specificità e caratteristiche. Che sono raccolte e riportate a Stans-Oberdorf da chi è stato sul terreno.

«Una scelta personale e professionale»

Bryan Ciapponi, Fabio Rebello, Amelie Gabioud e Riccardo Battaglia hanno finito la lezione di teoria e scendono di un piano per l’esercitazione pratica. Devono imparare a trascinare un commilitone ferito, curarlo e mettersi in sicurezza. Si allenano con pistole finte e manichini. «La mia idea è quella di fare carriera nell’esercito - spiega Bryan - e andare in Kosovo mi sembra un passo interessante nell’ambito della mia esperienza professionale e personale. Anche perché per ora non ho legami, sono giovane e ho tutta la vita davanti». Riccardo è autista di carri. E anche lui ha deciso che questo è un buon momento per partire. Per Fabio partire significa avere una buona occasione per vedere anche un’altra realtà. I quattro ragazzi sorridono e scherzano nel fare gli esercizi. Fa impressione pensare che tra tre settimane verranno catapultati in un Paese che non ha ancora risolto le proprie tensioni civili e sociali, come ha dimostrato l’attacco del maggio scorso, quando circa 40 militari della KFOR sono rimasti feriti in gravi scontri fra truppe NATO e dimostranti serbi a Zvecan, nel Nord del Kosovo.

L’occhio che tutto vede

I quattro ragazzi non saranno comunque mai soli. Non solo perché faranno parte di un contingente SWISSCOY formato da circa 215 soldati. A tenerli d’occhio saranno anche gli uomini e le donne che lavorano qui, in un piano degli edifici che si affacciano sulla piazza d’armi. Uomini e donne del Tactical operations center (TOC) guidati da Philipp Jordi. «Siamo osservatori e sostenitori», sottolinea, sorridendo Jordi. E in effetti niente sembra sfuggire ai loro schermi e ai loro telefoni. Che monitorano e seguono costantemente ogni peacekeeper svizzero nel mondo. Jordi clicca su un tasto e apre una schermata. Di colpo appare una cartina del mondo con dei punti luminosi. I punti luminosi sono i peacekeeper. In un’altra videata appaiono invece delle informazioni in rosso. Indicano tutto ciò che occorre sapere quando si è in missione. I pericoli soprattutto. Di cui bisogna tenere conto. Perché in alcuni punti del globo, come in Africa, le cose possono cambiare anche rapidamente.

Le missioni nel mondo

Africa, Balcani, Medio Oriente, Asia. Non sono poche le missioni all’estero per promuovere la pace. Così come non sono poche le figure professionali sul campo. Perché chi passa da qui e riceve l’istruzione per uscire dai confini nazionali va a compiere tutta una serie di attività molto differenti tra loro. In Ghana e in Kenya gli ufficiali svizzeri contribuiscono ad esempio alla formazione mirata delle forze armate internazionali, degli agenti di polizia e dei civili. In Congo ci si occupa della gestione e dell’amministrazione dell’equipaggiamento dei team internazionali che sono responsabili dello sminamento oppure si interpretano dati, si fanno analisi delle zone bonificate e si realizzano mappe delle mine. In Bosnia Erzegovina i peacekeeper svizzeri aiutano le autorità a garantire un clima di sicurezza nel Paese. Stessa cosa nel Sahara occidentale e nel Medio Oriente. Alcuni soldati lavorano anche alla sede centrale dell’ONU a New York e nell’ufficio ONU di Ginevra, nonché nel Segretariato dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) a Vienna.

Costruttori di pace

Costruire la pace, a volte, può anche avere un aspetto pratico. Manuale. Ecco perché per la sua promozione la Svizzera oltre agli ufficiali di milizia e di carriera ha bisogno di tutta una serie di figure professionali specifiche. Che non sempre è facile trovare. «Oggi facciamo fatica a reclutare meccanici di automobili e camion», precisa Fehr. L’elenco delle professioni è lungo. Anche perché i requisiti variano a dipendenza della missione e del tipo di impiego. Meccanici, specialisti nei settori dell’informatica, dell’elettronica e del multimedia, medici, infermieri, esperti di comunicazione, conducenti, professionisti della logistica, delle finanze, delle munizioni, delle infrastrutture, del genio civile… Costruire la pace non è insomma un mestiere per tutti, ma tanti mestieri servono allo scopo.

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