Cultura

Franco Supino: «Dicevo di essere ticinese»

Parlare di immigrazione italiana in Svizzera non è mai semplice, perché prima di tutto si parla di storie vere, fatica, stenti, emarginazione, sacrifici
Franco Supino nel 1997. © KEYSTONE
Andrea Bertagni
Andrea Bertagni
28.05.2023 22:00

Parlare di immigrazione italiana in Svizzera non è mai semplice. Perché prima di tutto si parla di storie vere, fatica, stenti, emarginazione, sacrifici. Difficoltà nate e vissute soprattutto negli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso, coincise con l’iniziativa Schwarzenbach, che avrebbe voluto ridurre drasticamente il numero degli stranieri in Svizzera senza riuscirci, perché venne bocciata dal popolo. Nel mirino dell’iniziativa c’erano principalmente loro, gli italiani. Che secondo molti non volevano integrarsi e in più mettevano in pericolo l’identità e il benessere svizzeri. Franco Supino, figlio di immigrati di origine campana nato nel 1965 a Soletta, quegli anni se li ricorda bene. Perché «quando andavo alle scuole elementari dicevo di essere ticinese pur di non essere emarginato». 

Molti anni dopo Supino in Svizzera tedesca è quasi una celebrità. È uno scrittore di successo, è  chiamato in televisione, in radio e scrive sui principali giornali. «Sì, oggi la percezione nei confronti degli italiani è molto cambiata», ammette, guardandosi indietro, ma non troppo. Perché uno dei fili conduttori della sua opera letteraria, che è scritta in tedesco, è proprio l’immigrazione italiana in Svizzera. «Un autore dovrebbe parlare di quello che conosce», precisa con modestia. 

Napoli nel cuore

Lo stesso Supino non sa però definirsi. Non sa se essere più italiano o più svizzero. «Dipende dalle volte e dalle situazioni. A volte mi vergogno di essere italiano, altre di essere svizzero. È molto complicato trovare una risposta. Scherzando se si tratta della nazionale di calcio ho sempre detto di tifare quella più debole. Prima tifavo per la Svizzera, ora per l’Italia...». Lo scrittore, che ha all’attivo quattro romanzi e vari racconti e libri per ragazzi tradotti solo in parte in italiano, non parla di calcio a caso. Per la Nzz am Sonntag ha appena scritto un lungo articolo sulla vittoria del Napoli in campionato. Squadra per cui tifa senza, questa volta, dubbi o esitazioni. 

E sempre alla città partenopea ha in qualche modo dedicato il suo ultimo libro, Spurlos in Neapel , pubblicato lo scorso ottobre. Un libro che, guarda caso, parla di immigrazione, questa volta però di ritorno. «Mi ricollego all’idea di molti italiani che emigrarono in Svizzera negli anni ‘60 che era quella di tornare al loro paese di origine - spiega l’autore - . Dopo che i  genitori non hanno potuto raggiungere l’Irpinia a causa del terremoto del 1980, il narratore compie il percorso inverso che avrebbero voluto fare i suoi genitori senza però riuscirci, perché ormai sono morti. Torna e immagina come avrebbe potuto vivere in quei luoghi a 15 anni, quando era stato pianificato il ritorno. Poi si sposta a Napoli e si rende conto che sono stati in tanti a non tornare, ma si accorge anche che in città sono arrivate molte altre persone da fuori, non da Nord, ma da Sud.  Una di queste è un bambino dell’Africa occidentale che entra nella Camorra e poi sparisce facendo perdere le sue tracce...». 

Con il quarto romanzo dedicato alla città sotto il Vesuvio Supino sembra aver chiuso momentaneamente un cerchio. Quello che ha aperto con il primo libro Musica Leggera  pubblicato nel 1995. Un titolo che non è stato scelto a caso. «Per diversi anni la musica leggera è stato un collante tra svizzeri e italiani, perché anche gli svizzero tedeschi ascoltavano Gianna Nannini, Edoardo Bennato e Toto Cutugno. La musica leggera ci univa, ricuciva il divario tra noi italiani della seconda generazione e gli altri».  

La musica

Con il primo libro Supino racconta perciò cosa voleva dire essere italiani in Svizzera negli anni ‘70 e ‘80. Anni diversi dai precedenti surriscaldati dall’iniziativa Schwarzenbach. Non più roventi. Ma comunque non ancora tiepidi. Soprattutto per i figli degli immigrati. Che a scuola parlavano svizzero tedesco e a casa italiano. «In realtà non parlavo italiano, ma napoletano - precisa -. Ma me ne sono reso conto solo diversi anni dopo. Sia mia mamma che mio papà del resto parlavano napoletano e io l’ho scoperto dopo. Tanto che l’italiano ho dovuto studiarlo per impararlo davvero bene».

Nel 2004 Supino dà alle stampe un altro romanzo, Ciao amore, ciao, lasciando il titolo in italiano come la canzone scritta da Luigi Tenco e interpretata dallo stesso Tenco e dalla cantante italo-francese Dalida al Festival di Sanremo del 1967. «Anche Dalida era figlia di immigrati», precisa lo scrittore che con questo libro intreccia la tematica migratoria con quella del suicidio. Perché Tenco si toglierà la vita proprio durante il festival canoro di quell’anno. In Ciao amore, ciao, romanzo che Supino ha scritto ispirandosi alle biografie della cantante e del cantautore, realtà e apparenza si mescolano, così come autenticità e messa in scena, tra radici culturali, successo e fallimento, ma anche contrasti tra industria d’intrattenimento e cultura di protesta.

Un suicidio svizzero

Come un filo che continua e non si spezza quattro anni dopo approda in libreria Das andere Leben, un romanzo che racconta l’ultima parte della vita dello scrittore e drammaturgo svizzero Caesar von Arx, che decide di suicidarsi il 14 luglio 1949, il giorno in cui muore la moglie malata. Questa volta non è l’Italia a essere al centro dell’opera di Supino, ma la Svizzera. Quasi un omaggio al Paese che ha dato accoglienza ai suoi genitori. Che nel libro è ricordato nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale. Ma anche un tributo a tutte le persone che decidono di vivere seguendo le proprie aspirazioni artistiche, come il poeta svizzero, appunto, che nelle ultime settimane della sua vita si sentiva incompreso, svuotato, fallito. 

La realtà, qualunque essa sia. Soprattutto se è difficile. Supino sembra esserne attratto. Quantomeno non intende fermarsi alla superficie, ma scavare a fondo. Incontrare quel che c’è sotto l’apparente. Ma la realtà ha molte forme e facce e può essere anche spunto per raccontare storie ai ragazzi e ai bambini. Storie questa volta di amicizie e di confronti generazionali, come ha scelto di fare l’autore con i suoi libri dedicati ai più giovani. «Mi rendo conto di non andare a toccare temi e generi giovanili che oggi vanno tanto di moda, come il fantasy», sottolinea senza preoccuparsi troppo l’autore che va dritto per la sua strada, per il suo percorso letterario. 

Un percorso che fino a oggi non è stato ancora scoperto dai lettori di lingua italiana.  «Forse arriverà quel giorno, non lo so. Per ora non mi preoccupo. Anche perché non si deve tradurre tanto per tradurre ma solo quando si pensa che possa esserci un interesse per i lettori». Per il momento Supino non se ne cura. Anche perché «ci sono già tante e buone traduzioni in Svizzera». E per quanto riguarda il mercato italiano che potrebbe essere interessato ai suoi romanzi ha un’idea precisa. «In Italia gli editori non sono molto interessati agli scrittori italiani che scrivono di migrazione e di italiani all’estero. Non so il motivo. Probabilmente, come nel mio caso che vivo in Svizzera, pensano che stiamo bene, siamo fortunati e non abbiamo nulla di interessante da raccontare». 

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