Hamas divisa tra apertura e strenua difesa

Hamas ha preso tempo per dare una risposta al piano Trump su Gaza. Scelta tattica ma anche riflesso di una fase complessa, marcata da un’attività diplomatica multinazionale e dalla costante attività bellica. Il movimento è arrivato a questo possibile punto di svolta diviso. E non è certo la prima volta che accade.
La leadership in esilio avrebbe assunto una posizione di apertura, una conseguenza diretta delle pressioni subite da parte dei mediatori. Il Qatar, che ospita i dirigenti della diaspora, l’Egitto e la Turchia hanno svolto in queste ore un lavoro costante al fine di raggiungere un’intesa. Missione non facile perché gli israeliani hanno modificato alcuni punti della bozza presentata dalla Casa Bianca per trarre il maggiore vantaggio. Il senso è chiaro: quella elaborata non è certo la migliore soluzione possibile ma è comunque una soluzione per far tacere - si spera - i cannoni e mettere fine alla tragedia umanitaria.
Diversa, come in passato, la posizione di Hamas dell’interno, ossia dei capi che vivono sotto assedio nella Striscia, guidano il braccio militare, gestiscono gli ostaggi. Izzedine al Haddad ha fatto trapelare in questi giorni una posizione critica chiedendo delle modifiche, allo stesso tempo fonti anonime avrebbero fatto sapere che la fazione avrebbe difficoltà nel recuperare i corpi dei prigionieri deceduti durante questi mesi. E sullo sfondo c’è la necessità del movimento di conservare le armi, obiettivo unito all’incertezza sul futuro e alle condizioni di debolezza.
Hamas è stata fiaccata, decimata, incalzata da mesi di attacchi ma non è scomparsa e la trattativa è servita anche a riaffermare il proprio ruolo in contrasto a scenari alternativi, a governi tecnici che dovrebbero assumere il controllo dell’area, a milizie palestinesi sponsorizzate da Tel Aviv e forse sostenute, in modo discreto, dagli Emirati Arabi, attore regionale tra i più attivi.
Le analisi di esperti e intelligence hanno fornito dati interessanti - sia pure parziali - sullo stato delle cose. La fazione ha perso migliaia di uomini, oltre 40 comandanti e operativi sono stati uccisi a partire da marzo. Caduti che si aggiungono alle dozzine di ufficiali eliminati nel periodo precedente. Sembra che sia rimasto in vita solo uno degli esponenti del consiglio militare che ha gestito l’assalto del 7 ottobre. È probabile che sia andato distrutto il 90% dell’arsenale di razzi, tuttavia i mujaheddin ne hanno ancora a sufficienza per tiri che devono dimostrare una presenza. Difficile valutare le condizioni dei tunnel, uno dei sistemi più importanti per la formazione: stime indicano che l’IDF ha distrutto il 40% delle gallerie. Video recenti hanno mostrato come i combattenti li sfruttino per cogliere di sorpresa il nemico: piccoli nuclei escono dai cunicoli in prossimità di avamposto e causano perdite.
Hamas si è adattata alla tempesta. Non essendo più in grado di agire a livello di grandi unità ha diluito le Brigate al Kassam in piccoli nuclei ai quali ha affidato il compito di effettuare colpi mordi-e-fuggi, di condurre azioni di resistenza, di mantenere comunque un ruolo sul territorio.
In quest’ottica la lotta armata non è solo un mezzo ma rappresenta anche un obiettivo strategico. E poco importa ai «falchi» se questo comporta conseguenze per una popolazione stremata che, a differenza dei miliziani, non ha alcuna facoltà di scelta.
I negoziatori sono frustrati, tante le incognite sul futuro. Il raid di Tel Aviv per far fuori gli esponenti di Hamas a Doha è fallito, Donald Trump ha obbligato Bibi Netanyahu a chiedere scusa all’Emirato ed ha offerto lo scudo americano al Qatar. Un gesto che se, da un lato, riafferma il valore dell’alleanza, dall’altro evidenzia il timore di un conflitto dove tutto è possibile.