«Ho visto i lati oscuri del calcio»

Incontriamo Michele Bernasconi, nato a Lugano e cresciuto a Loreto, nel suo studio di avvocato a Zurigo. La pandemia rende l’evento più agevole, in situazione normale sarebbe assai più probabile incontrarlo da qualche parte nel continente e nel mondo, tale è il ventaglio di attività sviluppate nel corso della sua carriera professionale. Notevole. Basti pensare che per due anni consecutivi questo legale, tanto famoso tra gli addetti ai lavori quanto discreto, è stato designato «avvocato dello sport dell’anno» da Who’s Who Legal - il sito londinese che presenta più di 24 mila principali studi legali e 2.500 esperti di consulenza in oltre 150 giurisdizioni nazionali - ed è considerato tra le migliori individualità al mondo nei suoi campi. Quali? Ne abbiamo calcati alcuni.
Entriamo in argomento evitando di porre domande... a gamba tesa, potremmo venire sanzionati. Perché è diventato avvocato e non ha inseguito il classico sogno infantile di diventare astronauta?
«Da bambino (siamo a fine anni Sessanta, ndr) ero rimasto colpito dal telefilm Perry Mason, l’avvocato di Los Angeles, interpretato dall’attore Raymond Burr. Una figura che mi era immediatamente piaciuta. Crescendo, tranne un momento di indecisione ai tempi del liceo quando avevo pensato di continuare gli studi in storia e filosofia, sono rimasto fedele a questa immagine primordiale, anche se poi non mi sono specializzato in diritto criminale come Perry Mason».
Tornando ai giorni nostri, dopo un’attività trentennale, che idea si è fatto della sua professione di avvocato?
«Mi ritengo doppiamente fortunato. Da un lato, perché ogni giorno lavorativo è un giorno diverso, caratterizzato da sempre nuove questioni che si presentano sul tavolo e dalla possibilità di incontrare sempre nuove persone. Nello stesso tempo, ormai da più di 25 anni, lavoro attivamente nel mondo dello sport: un’attività molto creativa».
Tra le consulenze sportive svolte in carriera con la UEFA, la società con sede a Nyon e che dal 1954 gestisce il calcio in Europa, ve n’è anche una oggi sulla bocca di tutti e inerente al fair play finanziario.
«Un grande progetto ideato da Michel Platini e Gianni Infantino, per i quali era necessario trovare un sistema affinché i club di calcio spendessero solo in base ai loro guadagni. Abbiamo dovuto inventare regole e procedure. Un lavoro giuridicamente molto stimolante».
Di cosa si tratta?
«In sostanza il fair play finanziario dice che se una squadra vuole partecipare alle competizioni europee della UEFA deve soddisfare certe condizioni, la principale è rispettare la regola che abbiamo imparato tutti da piccoli: non puoi spendere quello che non hai».


E viene davvero applicato? Dalle trasmissioni tv ai discorsi da bar, si ritiene che club come ad esempio il Paris Saint- Germain non lo rispettino...
«Capisco che un tifoso possa avere certi pensieri, ma a dire il vero la realtà è un’altra. Prima che esistesse il Financial Fairplay della UEFA, solo in Italia si potevano contare ogni anno circa 15 club di calcio professionistico che andavano in bancarotta. Inoltre, in media le squadre investivano solo il 3% per il calcio giovanile. Oggi il numero dei fallimenti si è ridotto del 90% e si investe nel calcio giovanile e femminile mediamente 20 volte di più rispetto a 10 anni fa. Tutto questo dopo che in 10 anni l’UEFA ha, per esempio, escluso dalle sue competizioni più di 130 club perché non pagavano in tempo i loro debiti, come i salari ai loro giocatori. Se posso aggiungere delle cifre: nel 2011, prima dell’introduzione del fair play finanziario, i club europei avevano un debito netto di -1,7 miliardi di euro. Nel 2018 si è raggiunto un profitto di +150 milioni di euro: un risultato non da poco. Insomma, è vero che il calcio è cambiato e sta cambiando, non tutto è rosa, ma non tutto è nero».
Champions League uguale soldi uguale diritti televisivi e telespettatori. Michele Bernasconi è intervenuto anche in questo campo.
«Negli ultimi 20 anni vi è stato un grande sviluppo anzitutto per quello che riguarda la procedura di vendita dei diritti, che è diventata molto più sofisticata. I diritti di eventi internazionali vengono venduti di Paese in Paese seguendo una procedura trasparente e pubblica, che in questo caso consiste in una vendita all’asta».
Come una volta sui sagrati delle nostre chiese durante le feste patronali? Più o meno.
«Sarebbe bello... Qui il lavoro dell’avvocato consiste nella preparazione delle regole della procedura dell’asta e nella preparazione dei documenti. Oramai sono contratti complessi, di 100 e più pagine. Ed il mondo dei media cambia talmente velocemente che ci sono sempre nuovi problemi. Mi ricordo i primi litigi contrattuali creati dall’Internet, che non conosce confini e quindi non rende facile garantire i diritti di esclusività per un Paese».
E poi ci sono imprevisti come la COVID-19.
«Un evento inatteso che ha stravolto lo sport in TV e quindi ha portato a dover ridiscutere i termini contrattuali con i partner televisivi per molteplici discipline sportive. Procedimenti complicati a causa ovviamente dei forti interessi in gioco».
L’enorme diffusione non solo televisiva degli eventi risveglia gli appetiti finanziari di molte persone. Anche truffaldine.
«Oggi come oggi abbiamo un mercato internazionale delle scommesse online enorme, penso ad esempio ai siti Internet asiatici, a cui si rivolgono persone che scommettono su tutto, tipo la partita tra squadre giovanili o interregionali o il numero di doppi falli che un tennista sconosciuto commetterà nel terzo game del primo set. Abbiamo avuto diversi casi di giocatori e giocatrici di bassa classifica che facendo fatica ad arrivare alla fine del mese si sono lasciati sedurre da truffatori che offrivano soldi per truccare le loro partite. Casi umani tristissimi».
Si sta lavorando per neutralizzare il fenomeno.
«Sì, molto. Forse il pubblico non sa che FIFA e UEFA utilizzano un sistema di software per controllare circa 100 mila partite all’anno per cui nel calcio è diventato più difficile truccare le gare. Lo stesso vale per la ITF, la federazione internazionale di tennis. Oggi esistono società di software specializzate che 365 giorni all’anno monitorano in tutto il mondo le scommesse in corso. Un esempio. Durante una partita della serie B tedesca era stato registrato un aumento sospetto di scommesse riguardante il numero di reti realizzate al termine del primo tempo. Recepito il potenziale problema, l’organizzatore dell’evento è stato subito informato».
Nel corso dell’incontro Michele Bernasconi ha usato frequentemente l’espressione “ho avuto la fortuna di”. Come nel caso che stiamo per leggere.
«Vent’anni fa ho avuto la fortuna di essere stato scelto come arbitro al Tribunale arbitrale dello sport (TAS) con sede a Losanna».


L’arbitro implica un gioco, delle regole, delle infrazioni. Con quali regole e deroghe è confrontato svolgendo l’attività di giudice sportivo?
«Il TAS è stato creato nel 1984 per vegliare affinché tutti gli atleti, i giocatori, le squadre, tutte le federazioni nazionali potessero avere un organo internazionale unico che giudicasse i contenziosi di natura sportiva. Questo fa sì che l’atleta turco, come la squadra russa, o la federazione sudamericana o l’agente di giocatori belga, vengano trattati allo stesso modo, con regole valide per tutti».
Il TAS si compone di oltre 300 giudici chiamati a decidere su svariate problematiche.
«Di tutto e di più. Anzitutto, tantissimi sport: calcio, basket, hockey, ciclismo, sci, nuoto, equitazione, ma poi anche surf, scacchi, danza sportiva, sub, arrampicata sportiva, padel e tante altre discipline. E poi le questioni giuridiche di tutti i tipi: dai casi di doping a litigi per trasferimenti di giocatori - e ogni anno vi sono quasi 20 mila trasferimenti internazionali di giocatori - a casi di natura più disciplinare, come la violenza dei tifosi negli stadi. Vi sono poi conflitti di natura commerciale, come gli scontri tra sponsor e federazioni, o tra televisioni e federazioni sportive. Un terzo gruppo di casi, forse meno conosciuti, ma per lo sport importantissimi, sono quelli di cui si occupa la Camera olimpica ad hoc, composta da 12 giudici per i Giochi olimpici estivi e 9 per quelli invernali, i quali si trovano in loco ed entro 24 ore devono prendere una decisione».
Lei era fra questi ai Giochi estivi di Londra 2012. Un’esperienza indimenticabile, ci ha detto. Qui però ci preme evidenziare il tratto umano del giudicare. Come ci si sente?
«Vi sono giudici e tribunali in Svizzera e nel mondo che devono giudicare cose molto più difficili di quelle con le quali sono confrontato io. Però anche nel mio ruolo di giudice sportivo ho vissuto situazioni un po’ tristi, come certi casi di doping. Non è necessariamente facile dire ad un atleta che non può partecipare ai Giochi olimpici».
Vista così, la sua attività potrebbe essere considerata come un lavoro quotidiano a confronto con le ombre dello sport. Vi sono anche luci?
«Creare e sviluppare giurisprudenza in una nuova disciplina legale è molto gratificante. Ma l’esperienza più bella donatami dalla mia attività è quella di poter lavorare a stretto contatto con persone di tutto il mondo. Ho conosciuto non solo tantissime persone di grande qualità, ma anche mondi sportivi completamente differenti dal nostro».
Come quelli interni agli Asian Games, giochi analoghi a quelli olimpici di cui alle nostre latitudini è praticamente sconosciuta l’esistenza, non essendoci copertura televisiva.
«Vi ho preso parte a Jakarta, in Indonesia, nel 2018. Numero di atleti partecipanti pari se non superiore ai Giochi olimpici. Si compone di discipline a noi note, ma anche di attività un po’ strane: Kabaddi, Sepaktakraw, Sambo, Kurash, Wushu, Pencak Silat, Bridge (questo forse lo conosciamo, ndr). Insomma: forse suona troppo romantico, ma lavorare come avvocato nello sport mi ha reso un po’ figlio del mondo - un “ragazzo fortunato”, come quello della canzone di Jovanotti, più che il Giudice dell’indimenticabile Fabrizio De André».