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I Chiesa al centro dello stadio

«Ho saputo da Angelo Elia a scuola che mio papà aveva giocato nel Lugano» dice il politico e presidente dell'UDC Svizzera
© CdT/Chiara Zocchetti
Marco Ortelli
04.06.2023 12:15

Galoppata a Cornaredo per il ritratto fotografico e poi in «ritiro» a Viganello dal Nin da San Sir, locale pubblico di consuete chiacchierate tra padre e figlio e tra amici, soprattutto bianconeri. È qui che incontriamo Antonio e Marco Chiesa in vista della trasferta a Berna, una città che entrambi conoscono bene. L’ex giocatore l’ha abbracciata trionfalmente nel 1968 quando ha brindato con la Coppa. Il politico e presidente dell’UDC Svizzera soprattutto dal 2015, quando ha fatto il suo ingresso a Palazzo federale come consigliere nazionale. 

Oggi è un’altra finale, si vedrà

«I rituali vanno mantenuti - attacca Marco Chiesa - partenza in treno con mio figlio Mathias e gli amici alle 7, visita a Palazzo federale poi aperitivo sulla Piazza, quindi direzione Wankdorf», dove Antonio Chiesa prevede una partita dapprima difensiva. «Bisogna vedere come inizia la partita, se nei primi 15’ il Lugano riesce a tenere. Lo Young Boys è superiore, tecnicamente ma soprattutto fisicamente, ma il Lugano sta giocando bene e i bernesi dovranno fare attenzione, saranno anche più tesi di noi perché devono vincere davanti al loro pubblico, senza dimenticare che i 12 mila ticinesi saranno importanti per la partita». «Loro devono, noi possiamo vincere, quello che potrà fare la differenza è il fattore cuore», gli fa eco il figlio Marco, che aggiunge: «Anche ripensando al 15 maggio dello scorso anno, è straordinario vedere con quale orgoglio la gente indossi i colori bianconeri, fiera di esserci per partecipare a una festa svizzera». E qui il presidente nazionale UDC confida un curioso aneddoto. «E quest’anno potrò godermi la finale fino in fondo. L’anno scorso, ahimè, la partita coincideva con una votazione popolare. Dopo il nostro primo gol ho dovuto lasciare di corsa lo stadio per il commento dei risultati alla SRF al Centro dei Media di Berna. Di fianco a me avevo imboscato il telefonino e mentre gli altri presidenti erano interpellati io allungavo l’occhio su Lugano-San Gallo». 

Alzare in cielo la Coppa

Il 15 aprile 1968 il consigliere federale Celio consegna al capitano bianconero Adriano Coduri la seconda Coppa Svizzera della storia del Club. Magari in futuro accadrà che il consigliere federale… Marco Chiesa si troverà al Wankdorf a consegnare il trofeo nelle mani del figlio di capitan ‘Sabbakai’… «Prima di tutto il Lugano dovrà tornare in finale», commenta papà Antonio. «Ah, lui pensa che andare in finale sia la cosa più complicata… (sorride, ndr)» replica il figlio Marco. Vedremo. 

Proseguiamo sull’onda di un divertito battibeccare. Il calcio è genetico, in casa Chiesa. Marco ha mai pensato di seguire le orme paterne? «Non ho mai fatto quello che mio papà sapeva fare meglio di me, ossia giocare a calcio, a carte e andare a caccia. Il mio curriculum sportivo si è fermato alle giovanili del Rapid e al calcio minore. Ricordo che c’era gente che veniva a guardare le partite per vedere se avessi il talento di mio papà, purtroppo non l’avevo. So che anche lui veniva a vedermi ma non oso pensare cosa pensasse». «Cosa pensavo? Non era il suo sport, quando il pallone gli arrivava tra i piedi gli dava una pedata, l’importante era entrare in campo con la maglia bianca e uscire con la maglia ancora più bianca». Intervento da cartellino giallo per l’ex attaccante bianconero? Ecco la replica. Marco Chiesa: «Il solito ingeneroso, allora ti chiedo, ti piaceva più il fotbal o la caccia?». «Io preferivo la caccia – risponde Antonio Chiesa -. Parliamoci chiaro, a me piaceva giocare al pallone, non al calcio. La differenza consiste che con il pallone ognuno fa quello che vuole, nel calcio occorre una certa disciplina che non faceva per me». Una disciplina introdotta dal grande allenatore Louis Maurer giunto a Lugano nel 1966 gettando le basi di quello che sarebbe poi evoluto nel professionismo.

 

Giocavamo davanti ad almeno 7 mila spettatori. Ogni giocatore della squadra rappresentava una squadra di paese, Prosperi e Signorelli dal Melide, Brenna dal Taverne… c’erano identificazione e attaccamento
Antonio Chiesa

L’ultima insieme in questo Cornaredo

A Cornaredo vi siete scambiati qualche fraseggio col pallone. Ma il figlio ha visto il padre giocare nel vecchio allora nuovo stadio? «No, anzi. A scoprire che mio padre era stato un calciatore del Lugano è stato Angelo Elia, mio professore alla scuola che frequentavo al suo rientro dal Servette. Certo quando ero piccolo avevo ben notato in casa delle maglie originali “strane”, come quella del Barcellona. «Sai, io ho giocato subito dopo tuo papà», mi disse un giorno. Davvero?». L’ex attaccante, da parte sua, rivede la scena del 5 maggio 1968 davanti a 15.000 spettatori con quell’accenno di passaggio di Remo Pullica a Adriano Coduri intercettato da Fritz Künzli che all’89’ andò a battere Prosperi, consentendo allo Zurigo di ipotecare il successo in campionato. Così le cronache sportive di allora: «Una beffa capitata proprio oggi al termine di una delle più positive prestazioni del Lugano di questi ultimi anni» (Giornale del Popolo). «Al 29’ Chiesa, se al posto di intercettare di testa, avesse tentato di piede, forse Grob poteva essere battuto» (Corriere del Ticino). Più del gol forse mancato, Antonio Chiesa focalizza il suo sguardo sul numero di spettatori che allora accorrevano a Cornaredo. «Giocavamo davanti ad almeno 7 mila spettatori. Ogni giocatore della squadra rappresentava una squadra di paese, Prosperi e Signorelli dal Melide, Brenna dal Taverne… c’erano identificazione e attaccamento». Altro fattore di maggiore partecipazione: «Le partite del calcio minore si giocavano al mattino, così al pomeriggio la gente poteva andare a vedere il Lugano, o il Bellinzona. Oggi ci sono molte sovrapposizioni di orari, penso che la Federazione ticinese di calcio dovrebbe ripensare alla sua strategia». Poi, l’avvento delle «1000» partite in TV e gli eventi di ogni tipo che pullulano nel Cantone...

A Marco Chiesa, che nel 1968 non era ancora nato, piace sottolineare l’orgoglio e la gratitudine che prova quando «le persone mi parlano di un bel periodo che non era solo calcistico ma anche storico di crescita, di opportunità. Mi descrivono quei momenti come periodi felici, pieni di entusiasmo, e passione, da Chiasso ad Airolo». Entusiasmo che oggi avvolgerà Berna. Il nuovo «Progetto FC Lugano 2029» ci dirà se la passione potrà rifiorire e non solo in occasione di una partitissima. 

Metafora politico-sportiva

Antonio e Marco Chiesa, padre e figlio, ex giocatore d’élite il primo, attuale politico di successo il secondo, oggi insieme verso Berna. Con loro abbiamo parlato a lungo di calcio, scherzato di politica. Concludiamo l’incontro con una immagine politico sportiva rivolta al presidente nazionale dell’UDC. Se il partito è una squadra, cosa vuol dire alzare al cielo una Coppa Svizzera per chi lo presiede? «La Coppa Svizzera un presidente la vince quanto il suo partito cresce. Significa che la squadra che hai messo in campo è apprezzata dalla gente ed è riuscita a guadagnare la sua fiducia. Il presidente è anche allenatore (sorride, ndr)». 

Antonio Chiesa, sornione, ascolta. «Io ho vinto la Coppa Svizzera da giocatore e da spettatore oggi auguro al Lugano di vincerla ancora. Lui ha scelto la politica. Se è contento, lo sono anch’io, è la sua vita, io mi godo il mio tempo libero…». Anche al Wankdorf.