I consigli dello psicologo (ex prete) alla Chiesa
Il disagio è ovunque ma le chiese si svuotano. La gente è assillata da domande esistenziali ma sempre meno cerca risposte nella religione cattolica. La Chiesa è vista come qualcosa di antiquato e in un certo senso lo è veramente visto che continua ad alimentare delle pratiche che sono legate spesso solo a delle convenzioni sociali. Eppure il suo messaggio potrebbe essere più attuale che mai, se solo la Chiesa fosse veramente sé stessa. «Bisogna avere il coraggio di potare i rami secchi e ripartire dalle origini, dall’esperienza vera e autentica dell’incontro con Gesù risorto, come è stato per i primi cristiani», sostiene Roberto Roffi, un ex sacerdote che ha lasciato il ministero nel 2017 e oggi lavora come psicanalista a Pregassona. Con lui ci siamo intrattenuti in una conversazione ricca di spunti.
Signor Roffi, anche tra i sacerdoti sembra manifestarsi un certo disagio, non crede?
«Gli arresti di sacerdoti avvenuti negli ultimi anni sono secondo me il sintomo che c’è un disagio profondo nel clero. Dopo i recenti avvenimenti si sta cercando di fare un lavoro di sensibilizzazione, facendo delle formazioni ai preti per prevenire gli abusi sessuali. Ma mi chiedo se questo sia sufficiente. Personalmente, in base anche alla mia esperienza, ritengo che il problema fondamentale sia che quello che attualmente un prete deve fare in una parrocchia non sia più adeguato al mondo di oggi».
Perché non è più adeguato?
«Spesso i preti sono trattati come dei distributori di servizi. La gente si rivolge al parroco per chiedergli delle prestazioni: celebrare una Messa, fare il catechismo, amministrare i sacramenti e poco altro. Battesimo, prima comunione, cresima o matrimonio sono ormai degli eventi mondani. Sono cose che si fanno ancora per tradizione ma la fede e l’appartenenza alla comunità cristiana non ci sono più. Al prete si chiede di garantire dei servizi ma questo alla lunga è disumanizzante ed è fonte di frustrazione».
Non è un discorso di società che cambia?
«La società è cambiata molto negli ultimi decenni e per questo anche l’azione pastorale della Chiesa dovrebbe cambiare se vuole incontrare l’uomo di oggi. Mi sembra invece che nella nostra Diocesi ci sia ancora l’idea che si debba essere presenti su tutto il territorio. Questo pone a volte i preti in condizioni desolanti e di grande solitudine. Poi ognuno trova le proprie strategie di sopravvivenza. I più cercano di fare il loro dovere; chi ha una certa creatività personale magari escogita delle proposte nuove. Altri, invece, adottano purtroppo strategie meno sane e costruttive. Sono convinto che anche nella nostra società secolarizzata ci sia un grande bisogno spirituale ma ci vogliono persone che siano in grado di aiutare la nostra gente a riconoscerlo. Siamo tutti alla ricerca di un senso. Ma oggi una persona che ha delle domande esistenziali o ha un problema personale raramente cerca un prete. Si va piuttosto dallo psicoterapeuta o si cercano delle esperienze spirituali alternative».
Perché oggi non si cerca più il prete?
«In genere si pensa che la Chiesa sia qualcosa che appartiene al passato. Spesso l’esperienza fatta da bambini non è stata molto entusiasmante e per questo la Chiesa viene scartata in partenza. Per questo ritengo che bisognerebbe avere il coraggio di lasciar cadere quelle cose che si fanno solo per tradizione ma non sono più portatrici di una vita nuova che possa incontrare le persone nelle loro vere esigenze. Ma se penso alla mia esperienza in seminario non mi sembra che i preti siano formati per accompagnare le persone in un cammino spirituale e di ricerca di senso. Penso che bisognerebbe ripensare profondamente l’identità del prete diocesano».
L’abolizione dell’obbligo del celibato potrebbe aiutare i preti?
«Personalmente ritengo che il celibato sia intrinseco al sacerdozio e che il sacramento del matrimonio e il sacramento dell’ordine sacro abbiano due compiti specifici, entrambi totalizzanti. Abolirlo mi sembrerebbe una scorciatoia per risolvere problemi che sono di altra natura. Il celibato è uno dei segni più evidenti del fatto che l’amore di Gesù può realmente compiere il desiderio del cuore dell’uomo: rinunciarvi sarebbe una grande perdita. D’altra parte dobbiamo riconoscere che vivere il celibato nel mondo di oggi è molto difficile. Per questo va ripensata tutta l’attività pastorale: il prete dovrebbe essere inserito in una comunità viva e deve avere una grande maturità affettiva e una vita interiore sana».
Come si fa a capire se una persona è adatta a vivere come sacerdote nel celibato oppure no?
Ci vuole un discernimento vocazionale serio. Io sono entrato in seminario a 26 anni: ero convinto d’avere la vocazione ma avevo anche una grande irrequietezza affettiva, legata a mie ferite. Ma durante i miei cinque anni di seminario non era mai stato tematizzato seriamente cosa significasse vivere il celibato. Era dato per scontato. Personalmente penso che vivere nel celibato oggi richieda una sanità interiore e una maturità affettiva che non tutti hanno: non basta sentirsi chiamati al sacerdozio per poter vivere una vita intera nel celibato».
Meglio pochi preti ma buoni?
«Direi proprio di sì. Ma questo vuol dire ripensare completamente l’azione pastorale della Chiesa, riconoscendo che viviamo in una società secolarizzata, che non solo è pagana ma che a volte è ostile al cristianesimo e soprattutto alla Chiesa cattolica. Per muoversi in questo contesto ci vuole una grande intelligenza del cuore e una profonda sapienza umana. Solo la bellezza di una vita nuova e affascinante può di nuovo suscitare l’interesse verso la fede».
In fin dei conti se un’esperienza è viva e autentica attira altra gente.
«Esatto. Oggi la gente si sposta facilmente per andare al supermercato, al cinema o al teatro. Mi chiedo se non sarebbe disposta a spostarsi anche per frequentare una comunità cristiana viva, dove ci sono preti e persone capaci d’incontrare la gente, d’offrire loro un cammino personale. I Vangeli e gli Atti degli apostoli raccontano che la gente accorreva da ogni dove per incontrare Gesù o sentir parlare gli apostoli. La preoccupazione dei primi cristiani era quella di vivere la presenza del Signore risorto in mezzo loro e di volersi bene nel Suo amore. Poi era il Signore che aggiungeva persone nuove alle comunità».
Dunque lei propone di ripartire da capo?
«Gesù ha cominciato da solo e non si preoccupava se avesse tanto o poco seguito. Andava all’essenziale, al cuore, non faceva compromessi su niente. Pensiamo anche a san Benedetto da Norcia, il fondatore dei primi monasteri che sono poi diventati l’ordine benedettino. L’Impero romano stava crollando: si trovava come noi alla fine di una civiltà. E cosa ha fatto Benedetto? Non ha cercato di puntellare le istituzioni cadenti ma ha fondato i monasteri, un luogo dove la vita morale fosse di nuovo possibile, dove ognuno potesse essere guardato per sé stesso e fare l’esperienza di una vita umana. Nei secoli è nata una nuova civiltà: l’Europa cristiana».
Quindi anche storicamente potrebbe essere il momento buono per trasformare la Chiesa?
«Penso proprio di sì. Dovremmo avere il coraggio di riconoscere che nella Chiesa ci sono tante cose che sono legate a tradizioni ormai svuotate di senso e che certe strutture appartengono al passato, altrimenti rischiamo di venir schiacciati dal loro peso. Ci vorrebbe il coraggio di tornare al piccolo resto di Israele, mettendosi nella prospettiva di rievangelizzare la nostra società partendo dall’incontro personale. Non garantire dei servizi ma favorire l’incontro con Gesù».
È un po’ quello che ha fatto lei, personalmente, lasciando il ministero sacerdotale?
«Lavorando come psicanalista ho la possibilità d’incontrare le persone in modo vero. Persone che sono in un momento di difficoltà, che hanno dei problemi o che desiderano fare un lavoro su di sé per conoscersi meglio. Ho deposto una veste che non sentivo mia e ora sto facendo un’attività nella quale sono pienamente me stesso».
Va ancora a Messa?
«Sì, vado ancora. Dal punto di vista della mia fede personale non è cambiato nulla. L’aver lasciato l’ordine clericale non ha significato per me una rottura con la Chiesa. Nel 2018 ho avuto la possibilità d’iniziare la formazione presso l’Istituto C.G. Jung di Zurigo per diventare psicanalista e l’incontro con Jung è stato per me molto importante. Ho scoperto una psicologia aperta alla spiritualità e all’esperienza religiosa. Jung ritiene che una parte considerevole dei problemi psichici dell’uomo moderno abbiano un’origine spirituale. Viviamo infatti in una società squilibrata poiché il nostro progresso si è basato sulla scienza e sulla tecnica e ha avuto come scopo non la conoscenza della verità ma il dominio sulla materia, per poterla sfruttare a nostro piacimento. Così abbiamo acquisito molte conoscenze ma abbiamo smarrito il senso del nostro esistere su questa terra.
Quindi la Chiesa avrebbe ancora qualcosa da dire la sua in quest’epoca di dilagante disagio psichico?
«Io ritengo di sì, poiché come insegna Jung la maggior parte dei problemi psichici ha un’origine esistenziale. Se non troviamo un senso in quello che facciamo, se il futuro non solo è ignoto ma si presenta sempre più come minaccioso, è facile che si sviluppino disturbi psichici. La Chiesa ha certamente molto da offrire all’uomo e alle donne di oggi ma per poterlo fare deve tornare a raggiungere il cuore delle persone. Dobbiamo ritornare alle origini».