L'analisi

I tre scenari in Iran per il dopo-Khamenei: «La rivoluzione arriverà dai giovani»

L'esperto di Medio Oriente Pier Luigi Petrillo sulle prospettive del Paese degli ayatollah - «La situazione è più complessa di quanto in genere ci si immagini»
©Vahid Salemi
16.11.2025 14:00

Paese impenetrabile alla Khomeini che nel 1979 instaurò il regime degli ayatollah, l’Iran in questo momento sembra abbia un ruolo sempre più complesso e indecifrabile nel tormentato Medio Oriente. In un interessante e documentato saggio, «L’Iran degli Ayatollah» (il Mulino, 200 pagine) il professor Pier Luigi Petrillo, docente di Diritto pubblico comparato e Diritto comparato del patrimonio all’Università di Roma Unitelma Sapienza, saggista, autore di numerosi libri di grande interesse, indaga e spiega le attività del regime definendolo «uno dei più originali del mondo musulmano» e, precisando «tutto quello che non sappiamo sull’Iran pensando di saperlo.» L’abbiamo intervistato.

Professore, che cos’è veramente l’Iran oggi?
«Pensiamo all’Iran come a un blocco monolitico, ma è l’opposto. La cifra politica di questo Paese è data dai patronati ovvero da aggregazioni di interessi che si formano intorno a personalità religiose e laiche. I patronati sono un migliaio ed ognuno portatore di una visione diversa del futuro dell’Iran. Se si leggono i giornali di Teheran si ha chiaramente la percezione di questa diversità di vedute, nessuna delle quali prospetta un cambio di regime radicale. Quasi tutte identificano l’esigenza di salvaguardare la religione separandola dalla politica».

Si sono evidenziate incrinature che mostrano segni di cedimento attraverso le quali passa lo «spiffero» della rivolta da un clima asfissiante?
«Occorre distinguere tra ciò che percepiamo dell’Iran e ciò che è il vero Iran. Nell’Iran di Khomeini sono sempre esistiti molteplici Ayatollah che esprimevano posizioni anche discordanti con Khomeini. Anche oggi questa è la prima cifra dell’Iran ovvero una pluralità di voci provenienti da esponenti del clero che tratteggiano tanti diversi Iran. È proprio questo iper-fazionismo a caratterizzare la politica iraniana. Non si tratta di «cedimento» ma di un elemento fondante la repubblica iraniana».

Che cosa rende il popolo iraniano sottomesso al governo islamico?
«L’Iran non è un Paese arabo né un Paese asiatico ma un Paese cerniera tra questi due mondi e proprio questa sua funzione di collante l’ha reso storicamente strategico. Se si ignora questo dato non si comprende perché ancora oggi nessun iraniano accetta la possibilità che una forza esterna calata dall’alto «liberi» il Paese dagli Ayatollah importando un modello di democrazia estraneo. Il popolo iraniano è tutt’altro che sottomesso. In nessun Paese islamico esiste, all’opposto, un popolo così vitale che combatte ogni giorno contro le forme estreme del regime. Non abbiamo notizie di proteste e di movimenti di protesta simili a quelli iraniani in nessun altro Paese islamico».

E ottengono dei risultati?
«Questi movimenti di protesta, come quelli contro il velo o per la giustizia equa tra uomo e donna, cessano di essere efficaci non appena emerge il rischio di una invasione o di un attacco straniero. Dopo la guerra israeliana di giugno 2025, questi movimenti si sono per lo più auto-sciolti per mostrare ferma condanna negli attacchi. L’effetto della guerra è stato quello di ricompattare gli avversari del regime intorno alla Guida Suprema. La paura della potenza straniera è il collante di questa nuova alleanza».

Nella guerra di Hamas contro Israele, quanto ha contato e conta l’apporto dell’Iran?
«In termini strategici conta molto. In termini di risorse conta molto poco perché l’Iran oggi vive una crisi economica così profonda da non consentire più, come una decina di anni fa, per il governo di finanziare gruppi estremistici esterni al Paese».

In questo momento qual è il reale atteggiamento dei Paesi arabi nei confronti dell’Iran?
«Storicamente, in tutta l’area geografica, l’Iran era accerchiato ed isolato: accerchiato da forze militarmente molto più forti come era un tempo l’Iraq di Saddam Hussein e come è ancora oggi l’Israele di Netanyahu, ed isolato rispetto al mondo arabo sunnita. È questa la ragione per cui l’Iran ha sostenuto gruppi estremisti anche in Yemen. Tuttavia la situazione sta cambiando: nel 2023 il Paese ha siglato uno storico accordo con l’Arabia Saudita e gli attacchi di Israele delle scorse settimane hanno prodotto la condanna unanime di tutto il mondo arabo sunnita. Oggi, dopo la guerra di Israele all’Iran a giugno 2025, tutto il mondo arabo, per la prima volta nella storia del mondo, sostiene l’Iran ed è pronto a intervenire a sua difesa. Era qualcosa di impensabile fino a pochi mesi fa».

La sua perseveranza nel voler costruire l’atomica, lo rende un Paese pericoloso e lo espone a possibili attacchi?
«Per quanto riguarda il nucleare la questione è molto complessa. La tesi di fondo è che l’Iran stia preparando da anni una bomba atomica con l’obiettivo di attaccare Israele. Tutti i leader iraniani hanno negato questa tesi sostenendo più volte che le bombe atomiche sono contrarie all’Islam e al Corano e che chi le realizza deve essere «annullato» dalla terra. Al di là di questi proclami, la questione bomba è riassumibile in tre dati».

Quali, professore?
«Il primo è che l’Iran ha bisogno di energia nucleare perché altrimenti non riesce ad estrarre il petrolio e dopo le sanzioni statunitensi non può acquistare energia fuori dal Paese; il secondo è che nel 2015 l’Iran ha siglato un accordo internazionale con i membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Stati Uniti in primis) accettando di limitare notevolmente l’arricchimento di uranio per soli fini civili e di accogliere ispezioni giornaliere nei propri siti da parte degli esperti dell’agenzia internazionale sul nucleare; terzo, dopo che gli ispettori hanno confermato la correttezza delle azioni poste in essere dall’Iran, Trump, nel 2018, è uscito dall’accordo ed ha dichiarato guerra all’Iran. Se stiamo a questi fatti si fatica a capire il senso di quanto sta accadendo oggi. Chiedersi per quale motivo non si riesca a lavorare a un contesto di pace in quest’area geografica deve prescindere dalla riflessione sulla non-democraticità dell’Iran degli Ayatollah (la quale è una caratteristica condivisa dagli altri Paesi dell’area)».

Che rapporto c’è tra il terrorismo islamico e l’Iran?
«Al-Qaeda e l’ISIS hanno compiuto più attacchi terroristici in Iran che in tutti i Paesi occidentali. Per il terrorismo di matrice islamista, l’Iran è il nemico numero uno perché rappresenta l’altra faccia della storia musulmana, quella sciita, considerata dai sunniti la versione falsa ed eretica. All’indomani dell’11 settembre 2001, che sono la premessa della guerra globale al «terrore» lanciata dagli americani, l’Iran è stato il primo Paese del mondo musulmano a condannare la tragedia e a esprimere solidarietà agli Stati Uniti; dopo la decisione del presidente George Bush di chiedere all’Onu di intervenire in Afghanistan contro il regime dei talebani, il governo iraniano espresse soddisfazione; quando gli Stati Uniti hanno invaso l’Iraq, gli iraniani hanno rispedito al mittente l’appello di al-Zarqawi e di Bin Laden di unirsi contro l’invasore a stelle e strisce. Anche per questo l’Iran ci irrita e ci stupisce: ci irrita perché non ci consente di catalogarlo secondo gli schemi mentali tipici e ci stupisce perché ci costringe a mettere in dubbio quasi tutte le convinzioni che su questo Paese ci siamo formati».

Tra le tre Repubbliche da lei ipotizzate (globalizzata, militare e della generazione post rivoluzionaria) quale potrebbe meglio rispondere alle esigenze degli iraniani?
«Nel libro ipotizzo sostanzialmente tre scenari possibili per il dopo Khamenei: un Iran che continua così come è, ma più forte grazie al supporto del mondo arabo divenuto ora amico; un Iran militarizzato a seguito di un colpo di stato dei Pasdaran; e un Iran profo ndamento rinnovato nelle sue fondamenta grazie alle nuove generazioni cresciute al culto dei diritti e delle libertà fondamentali tipiche delle nostre democrazie seppure declinate nel massimo rispetto della tradizione islamica sciita. Penso che tutti e questi tre scenari siano fattibili ma c’è un dato che rileva più di tutti: i 2/3 degli iraniani non hanno mai visto né sentito Khomeini, sono nati anni dopo la fine della rivoluzione del ‘79, ne ignorano i presupposti e i fondamenti. Sono cresciuti utilizzando i social network ed hanno accesso a tutte le più diverse fonti di informazione. Questa generazione, che oggi è nettamente maggioritaria nella società, arriverà al potere prima o poi e saprà cambiarlo dall’interno».

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