Il cielo di fuoco sopra Ramallah

I blindati israeliani sbucano all’improvviso nel cuore di Ramallah, disperdendo la folla già immersa nella quotidianità degli uffici, dei negozi, della moschea. I soldati prendono possesso delle strade, i cecchini si arrampicano rapidamente sulle scale dei palazzi per occupare le terrazze, i droni ronzano alti ma visibili nel cielo terso. Cominciano le urla, le imprecazioni, le fucilate d’avvertimento. L’obiettivo è un piccolo ufficio di cambio sospettato di finanziare Hamas. Un’operazione già avvenuta, più volte in tutta la Cisgiordania, ma rara a Ramallah, capitale politica a e amministrativa, luogo di finanza e di fiacca resistenza. L’ufficio viene chiuso, dollari, dinari e shekel sequestrati, i proprietari ammanettati. Ma la folla reagisce, soprattutto giovani, quasi bambini pronti ad affrontare Golia.
Spari e lacrimogeni
Ogni sasso raccolto intorno alla rotatoria di al-Manara, di al-Irsal street e nelle strade intorno al centro dell’operazione, viene scagliato sui mezzi e sui soldati. L’insulto, la parabola, il rifugio dietro l’angolo dove attendono i giornalisti con i giubbetti antiproiettile, i non pochi curiosi che s’avvicinano e fuggono a ondate quando i militari dell’Idf rispondono con i lacrimogeni, con i primi spari. Da un palo viene un minaccioso rintocco metallico, non solo proiettili di gomma, quindi. Il primo ferito viene trasportato a braccia nello spazio protetto di una via laterale, dentro un negozio. La serranda si abbassa, si riapre solo al giungere dell’ambulanza. Al termine delle quattro ore di guerriglia urbana saranno quattordici i feriti, sette da pallottole ordinarie. Un quattordicenne si batte fra la vita e la morte, un colpo gli ha squarciato il ventre. È martedì 26 agosto, ma potrebbe essere uno qualsiasi fra gli infiniti giorni della Palestina occupata.
Il massacro del 7 ottobre
Con il massacro del 7 ottobre 2023 Hamas ha spalancato le porte alla distopia: gli almeno 60.000 morti nella Striscia trasformata in un deserto di macerie, la carestia conclamata e i quotidiani crimini di guerra, il via libera in Cisgiordania al sionismo religioso, le moltitudini che riempiono strade e piazze israeliane invocando l’accettazione di un accordo per la liberazione degli ultimi 50 ostaggi sepolti nei tunnel. Il silenzio del governo guidato dal premier Netanyahu, ricattato dai ministri fondamentalisti Ben-Gvir e Smotrich, pronti a farlo cadere se in ciò che rimane della Palestina verrà allentata la stretta colonialista.
«In questi due anni ho imparato il lato oscuro, spietato del potere. Netanyahu farà qualsiasi cosa per tenere in piedi il suo governo autoritario, che controlla l’informazione e impedisce ai cittadini di capire. Il terrore instillato dal sistema mediatico ci ha reso sonnambuli. Chi dissente è diventato un traditore», spiega Ayal Metzegel, nuora di Tami, liberata con l’accordo del novembre 2023, e di Yoram, ucciso in un tunnel dai soldati di Hamas nell’estate del 2024. «Abbiamo bisogno del supporto di tutta la comunità internazionale. Anche mia suocera vuole la fine della guerra, e la pace per tutti. Siamo inorridite da quanto avviene a Gaza e in Cisgiordania», conclude con un filo di voce commossa Metzegel.
L’ultima roccaforte
Per stanare Hamas, annichilirlo o piegarlo a condizioni di resa totale, l’esecutivo ha - fra molte frizioni con un esercito stanco, disorientato ed esitante - lanciato l’operazione «Gideon’s chariots 2»: gli abitanti di Gaza City, ultima roccaforte sotterranea di Hamas, verranno spinti a sud, verso Khan Yunis e Rafah. Un milione di persone sconvolte, malate, divorate da una carestia che l’Onu ha ufficializzato e che se non placata si estenderà ben presto come una mostruosa macchia d’agonia.
I bombardamenti e le demolizioni prendono in una morsa i quartieri Sabra, Jabalia, Tuffah, Zeiutun, stringono verso il mare, il corridoio per l’esodo verso altri territori lunari di precarietà e fame. Sara vive nel campo di al-Karameh, 40 persone della sua famiglia allargata sono morte, compreso il suo giovane fratello Zakaria, ucciso mentre cercava di portare a casa un sacco di farina. Resiste in una tenda con la vecchia madre e le sorelle: «Cammino per ore sotto il sole tutti i giorni, fra morti e macerie, per cercare cibo e acqua, spesso senza risultato. Soffriamo di feroci irritazioni alla pelle, non abbiamo medicine. La notte sogno carne e frutta, poi mi sveglio, piango e mi riaddormento. Andrò via, se costretta. Questa è una giungla di predatori, non c’è posto per noi. Aspetto solo il mio turno per morire, anzi, spesso mi trovo a desiderare la morte. Questo è un incubo, non una vita».