Ticino

Il dilemma del poliziotto

Quando intervenire? Quando premere il grilletto? Vi raccontiamo il difficile equilibrio dei tutori dell'ordine
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Andrea Stern
Andrea Stern
02.07.2023 06:00

È incredibile come nessun omicidio, nemmeno il più efferato, sia in grado di scatenare tanta rabbia quanto l’uccisione di un fuggitivo da parte di un agente di polizia. Neanche il tempo di capire cosa sia effettivamente successo martedì a Nanterre che le strade di Francia sono state messe a ferro e fuoco da un’orda di cittadini inferociti. Esattamente come successe negli Stati Uniti dopo la morte di George Floyd, delinquente soffocato da un agente. Ancora una volta la polizia diventa il nemico contro cui riversare tutta la propria collera.

«Evidentemente ci sono due aspetti – commenta Mauro Dell’Ambrogio, ex comandante della polizia cantonale -. Da un lato c’è la rabbia generale contro le istituzioni, contro la cultura dominante, contro la società. La polizia diventa il bersaglio più facile di questa rabbia, perché in fin dei conti è quella che si deve mettere in prima fila quando si supera la linea della violenza. Dall’altro lato c’è l’aspetto dell’immagine della polizia, che può andare dal bobby britannico disarmato fino alle teste di cuoio antiterrorismo. La difficoltà della polizia sta nell’adeguare il suo intervento secondo il famoso principio di proporzionalità. È un equilibrio molto sottile».

Domande senza risposte definitive

Quando è giusto intervenire?Quando è legittimo sparare? Sono domande che non hanno risposte definitive.«È vero che il poliziotto è colpevole se non interviene - prosegue Dell’Ambrogio -, ma rischia di essere colpevole anche se l’intervento finisce male. Quando c’è una rissa, per esempio, c’è la buona regola di aspettare i rinforzi prima di intervenire, perché il fatto di essere in forze maggiori ha un effetto dissuasivo. Se un paio di agenti dovessero andare avanti da soli, rischierebbero di essere vittime. Poi magari capita che mentre gli agenti attendono i rinforzi, qualcuno li filma con il telefonino e li accusa di vigliaccheria perché non intervengono».

 È  facile giudicare, dall’esterno. «Il nostro lavoro è diventato sempre più complesso, alla polizia non si concede più niente - afferma Max Hofmann, segretario generale della Federazione svizzera funzionari di polizia -. L’errore non è più ammissibile anche se ogni intervento di un agente è svolto cercando le misure più corrette e proporzionali. Ma quando succede qualcosa si è messi in panchina o peggio si rischia di perdere una promozione e questo lascia l’amaro in bocca. Ogni nostro errore non viene mai condonato. È fastidioso». 

Il rischio di disincentivare l’azione

Tanto più che il poliziotto è chiamato a decidere all’istante. «Il poliziotto ha una frazione di secondo per decidere se sparare o meno - afferma Silvano Stern, ex comandante della polizia diLocarno -. Il mio mentore Giorgio Lepori, comandante della polizia cantonale, diceva sempre che a lui non interessava dove era arrivato il colpo, ma in che circostanza era partito.Bisogna sempre considerare il contesto, la necessità di prendere una decisione in un brevissimo lasso di tempo».

Con la consapevolezza del rischio di  andare incontro a conseguenze nel caso in cui la decisione dovesse rivelarsi sbagliata.Proprio di recente anche nel nostro cantone due interventi - a Lugano e Chiasso - sono sfociati in decreti d’accusa a carico di agenti di polizia.  «Il rischio è di arrivare alla condizione in cui davanti a un reato gli agenti gireranno la testa dall’altra parte per evitare il rischio di finire davanti al procuratore - afferma Stern -. Ma questo vorrebbe dire perdere la difesa dello Stato, la difesa dei più deboli».

D’altra parte non si può neanche concedere l’immunità agli agenti che sbagliano. «Non c’è una soluzione magica - riprende Dell’Ambrogio -. Bisogna trovare il giusto equilibrio tra la difesa delle forze dell’ordine, perché sono quelle che si mettono in prima fila a prendere colpi al posto di tutti gli altri, ma anche la richiesta alla polizia di essere esemplare, di lavorare sempre per attenuare e ridurre la violenza e non di promuoverla».

Il fenomeno non è nuovo, ci sono sempre stati poliziotti che sono andati oltre la soglia di proporzionalità
Paolo Bernasconi, ex procuratore pubblico

Quando il comandante applaudiva

È una ricerca costante. «Il fenomeno non è nuovo, ci sono sempre stati poliziotti che sono andati oltre la soglia di proporzionalità - osserva Paolo Bernasconi, ex procuratore pubblico -. Però rispetto a un tempo mi sembra di poter dire che sono migliorate l’istruzione agli agenti e la reazione dei superiori quando si verifica uno sgarro. Una volta, quando un poliziottofiniva allasbarra venivano in aula decine di suoi colleghi a sostenerlo e il comandante applaudiva ogni volta che l’avvocato difensore apriva bocca. Io, come procuratore pubblico, mi sentivo in minoranza. Oggi questo mondo è cambiato».

Oggi l’agente sa che se sbaglia non verrà più difesa a spada tratta da colleghi e comandanti. «Questo è l’aspetto decisivo - sostiene Bernasconi -.Perché se l’agente sa che i suoi superiori chiudono un occhio, si sente libero di fare quello che vuole. Se invece sa che i suoi superiori lo denunceranno per eccesso di forza, allora vuol dire che il sistema funziona bene».

Dagli all’agente

Anche se ciò significa, a volte, che l’agente si ritrova a subire violenza per il timore di reagire in modo troppo brusco. «Di solito alle manifestazioni si contano più feriti tra gli agenti che tra i manifestanti - riprende Dell’Ambrogio -. Pur con tutta la buona formazione e la sensibilità deontologica che puoi avere, è normale che se vedi i tuoi colleghi finire all’ospedale perché colpiti da bombe molotov, alla manifestazione successiva avrai l’istinto di vendicarli. I poliziotti vengono istruiti a cercare sempre di ridurre la violenza e mantenere l’ordine, ma si può capire che qualcosa sfugga».

Il problema è che spesso è dall’altra parte che manca l’istruzione. «Credo che ci sia anche una questione di perdita di rispetto per le autorità - sostiene MatteoQuadranti, avvocato e deputato PLR -. Lo si vede nelle scuole, nel rapporto tra allievi e docenti o tra famiglie e docenti. Anche in tribunale mi capita spesso di vedere giovani e meno giovani che non hanno alcuna considerazione per le autorità».

Due richieste dal sindacato

In questo contesto, gli agenti di polizia devono essere in grado di dare sfoggio di grande resistenza psicologica. «Il loro è un lavoro sempre più difficile - si inserisce Giorgio Fonio, deputato del Centro e segretario della sezione polizia dell’OCST -. Per aiutarli ad affrontarlo con maggiore serenità, noi chiediamo due cose. Primo, un inasprimento delle pene nei confronti di chi commette reati versole autorità. Poiché oggi ci si può permettere di non rispettare un ordine delle autorità sapendo che, male che vada, si andrà incontro a pene estremamente blande. Secondo, chiediamo l’introduzione della bodycam».

Uno strumento che, secondo Fonio, andrebbe a vantaggio di tutti, sia degli agenti, sia delle persone fermate. «La bodycam ha uno scopo preventivo - spiega -. Se una persona sa di essere filmata, molto probabilmente cambierà il suo atteggiamento». 

Ciò non significa che non partiranno più colpi d’arma da fuoco. «La vecchia saggezza inglese di avere gli agenti disarmati corrispondeva alla logica di tenere basso il livello di violenza - conclude Dell’Ambrogio -. Ma poi è arrivato il terrorismo e anche loro hanno dovuto armarli. Non è una sfida a chi è più cattivo.Ma c’è anche una soglia di ingenuità sotto la quale si rischia di essere vittima».

Ogni volta che i dirigenti del Dipartimento delle istituzioni fanno una gita, vanno a sparare
Matteo Pronzini, deputato MpS

Tra chi critica NormanGobbi e chi chiede più diversità

L’esempio vien dall’alto, dice Matteo Pronzini. «Ogni volta che i dirigenti del Dipartimento delle istituzioni fanno una gita, vanno a sparare - osserva il deputato MpS -. Non so, noi cerchiamo di diversificare le attività di svago, per loro invece sembra che esista solo il tiro».

Un’attività nobilissima, per carità. Ma che in questo caso, secondo Pronzini, rientra in un chiaro disegno politico. «Il consigliere di Stato Norman Gobbi vuole trasmettere un’immagine militarista, lui stesso impersona in modo anche goffo questa volontà autoritaria. A volte ho l’impressione che si creda un ministro americano. Non mi sembra che la sua gestione del Dipartimento delle istituzioni abbia cercato o cerchi di favorire il dialogo e la discussione».

In pratica, sostiene Pronzini, se i superiori usano la forza, anche i loro sottoposti si sentiranno legittimati a usarla. «Vedendo quello che sta succedendo in Francia – afferma -, ma anche per esempio quello che era successo a Genova con l’uccisione di Carlo Giuliani, mi viene da dire che la violenza poliziesca non è una questione di formazione e cultura, bensì l’espressione di una chiara volontà da parte del potere politico in cui si chiede alle forze dell’ordine, in modo esplicito e implicito, di essere repressive».

La «difesa del sistema»

Si tratta, nella visione del deputato MpS, di una strategia volta a preservare il sistema. «Lo Stato francese ha represso le manifestazioni dei gilet jaunes o quelle contro l’aumento dell’età di pensionamento – nota -, poiché si trattava di manifestazioni che rimettevano in discussione il sistema. Ma lo Stato non vuole cambiare il sistema. Per questo chiede alle forze dell’ordine di reprimere il dissenso, in modo da creare paura tra chi partecipa a queste manifestazioni».

Questo vale, secondo Pronzini, non solo nelle piazze ma un po’ ovunque nella società. «Lo spazio per esprimere posizioni divergenti si limita sempre di più – sostiene -. Basti vedere cosa ha fatto il Consiglio di Stato verso i due docenti della ErreDiPi che hanno osato informare i propri colleghi dei loro diritti in materia di pensioni. Questi due docenti hanno subito un’inchiesta amministrativa, ancora aperta, che è un chiaro tentativo di intimidirli».

In un recente rapporto dell’ONU la Svizzera ha ricevuto una tirata d’orecchie proprio sul tema del razzismo tra le forze di polizia
Gabriela Giuria Tasville, responsabile sviluppo progetti della Fondazione diritti umani di Lugano

«Un problema di razzismo»

Gabriela Giuria Tasville, responsabile sviluppo progetti della Fondazione diritti umani di Lugano, vede anche un problema di razzismo. «In un recente rapporto dell’ONU la Svizzera ha ricevuto una tirata d’orecchie proprio sul tema del razzismo tra le forze di polizia - afferma Giuria Tasville -. Per rimediare a questo problema le organizzazioni non governative propongono di integrare la multiculturalità nelle forze dell’ordine. Viviamo in un mondo che si muove, in una società multietnica, non è normale che ci siano corpi di polizia senza nemmeno, per esempio, un agente afrodiscendente».

Una maggiore diversità contribuirebbe, secondo Giuria Tasville, a riavvicinare la polizia alla popolazione nel suo insieme. «Ci sono fasce di popolazione dove il poliziotto è visto come qualcuno da temere - osserva -. In realtà il poliziotto dovrebbe essere visto come qualcuno di cui ti puoi fidare».

Per migliorare questo rapporto, aggiunge Giuria Tasville, sarebbe però anche necessario invertire questa tendenza che vede le forze esecutive assumere sempre più responsabilità a scapito del potere giudiziario.

«Bisognerebbe ripristinare il principio della separazione dei poteri - sostiene l’attivista dei diritti umani -. Invece stiamo andando verso una situazione in cui le forze di polizie hanno sempre più potere in autonomia.Sembra quasi una deriva autoritaria».

È una tendenza che, secondo Giuria Tasville, dovrebbe preoccuparci tutti.«Andate a leggere cosa scriveva il compianto John Noseda - conclude -.Lui, da uomo di magistratura, metteva in guardia dal pericolo di lasciare sempre più libertà di agire alla polizia.Chi ha il monopolio della forza dovrebbe essere ancora più ligio al rispetto delle regole.E dovrebbe sapere di non poter fare quello che vuole».

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