«Il dramma dei palestinesi è come quello degli indiani d'America»

«Quello che ho visto a Gaza è la cosa peggiore che abbia mai testimoniato in tutta la mia vita. Quasi tutti i 2.300.000 abitanti della regione sono stati sfollati». Omar El Akkad, scrittore e giornalista egiziano (è nato nel 1982 al Cairo ed è arrivato negli Stati Uniti passando per Doha e il Canada), documenta la striscia di Gaza stravolta dalla guerra. Dopo aver seguito il conflitto in Afghanistan, i processi di Guantanamo, le rivolte della Primavera araba e le protese del Black Lives Matter, ha scritto la testimonianza critica d’una guerra che semina morte soprattutto fra i civili: «Un giorno tutti diranno di essere stati contro» (Gamma- Feltrinelli, 192 pagine).
Gli orrori di Gaza per molti osservatori sono equiparabili all’esperienza degli ebrei nei lager nazisti, e non a caso si parla di genocidio: paragone eccessivo o addirittura insufficiente a dare una reale consistenza dei fatti?
«Quello che avviene a Gaza sta funzionando come un qualsiasi fatto di colonialismo avvenuto nella storia: popoli definiti selvaggi che dovevano essere controllati per salvare la civiltà e che hanno visto le loro terre rubate dagli invasori. Sto parlando dei nativi americani ma anche dei palestinesi. Il comportamento del colonialismo è sempre lo stesso. La parte ironica in tutto questo è ciò che si dice, ovvero, che stavolta è diverso, che non è come in passato, che ci sono delle condizioni eccezionali che rendono accettabile quello che sta succedendo. Ma ogni tipo di colonialismo nella storia funziona sempre allo stesso modo: uccide per depredare, depreda per arricchirsi».
Quanto avviene a Gaza è peggiore di quanto ha visto nelle guerre che ha seguito da cronista?
«Non voglio sminuire la carneficina che è avvenuta in Afganistan, o nelle altre guerre che ho seguito dove la morte brillava per atti di furore indescrivibile, ma quello che sta succedendo a Gaza non avrebbe potuto accadere se prima non si fossero verificate delle specifiche condizioni. Mi riferisco agli anni del terrorismo dove si discuteva di danni collaterali (un eufemismo coniato durante la guerra del Vietnam), per giustificare l’uccisione di migliaia di civili. Danni collaterali sono le persone imprigionate senza un’accusa specifica e detenute per sempre senza riavere mai la loro libertà. In un altro momento della storia questa situazione non si sarebbe potuta nemmeno immaginare. Ma perché in precedenza nella storia si sono create condizioni di sopraffazione e di usurpazione, ora ci troviamo a vivere questa tristissima realtà».
Hamas, a questo punto, perché non si arrende e libera i prigionieri israeliani ancora in vita? Non crede che l’accanimento ebraico sia il risultato dell’ostinazione di Hamas o sono altri gli interessi nascosti di Israele?
«Non credo assolutamente che se Hamas rilasciasse i prigionieri ancora in vita finirebbe la guerra e tornerebbe la pace. L’accanimento israeliano potrebbe essere anche giustificato, ma credo che nessuna mente libera o umana, potrà mai giustificare il massacro di bambini palestinesi. Non può essere una scusante quella del mancato rilascio degli ostaggi per attuare un genocidio, un massacro, un’operazione che non è fatta in buona fede. E penso anche che gli interessi di Israele siano noti, non sono affatto nascosti. Basta ascoltare quello che i politici israeliani hanno detto e ripetuto diverse volte. Secondo loro ogni palestinese deve morire, per cui non riesco a comprendere certe posizioni ipocrite: l’obiettivo è una conquista territoriale come tante altre in passato».
Lei pensa che Trump riuscirà ad imporre una pace in Medio Oriente, o lascerà che Netanyahu raggiunga tutti i suoi obiettivi anche perché questo conviene all’America?
«Trump è un uomo di destra e guida e amministra il suo impero come una serie di transazioni d’affari. Con lui qualsiasi pronostico è azzardato sia per la Palestina che per l’Ucraina, perché Trump è delirante su buona parte delle questioni. L’unica domanda che si pone è: quale vantaggio posso trarre del mio ruolo in questa situazione? Di recente Trump è stato in Arabia Saudita, e di solito quando un presidente visita un paese straniero, si discute, sia pure superficialmente, dell’importanza dei diritti umani e come si debba proteggerli. Ma Trump non ne ha assolutamente accennato: non ha mostrato alcun interesse a fingersi una persona sensibile, cosa che non è. Si può supporre che Trump consideri palestinesi, arabi e musulmani come persone che non sono dei veri esseri umani. I diritti e il benessere di queste persone sono del tutto inesistenti per lui. E questo è il motivo per cui continuerà a rifornire di armi Israele. Ed è anche il motivo per il quale vuole trasformare la striscia di Gaza in un resort a cinque stelle».
Anche per il mondo arabo, i palestinesi sarebbero solo materiale da slogan?
«Gli arabi non sono un singolo gruppo, un’unica entità. Gli arabi del Kuwait interpretano diversamente la Palestina e i suoi abitanti da quello degli arabi che vivono nel Libano. C’è un’enorme discrepanza tra gli individui arabi e i governi arabi. A livello di individui c’è una grande rabbia che gli arabi vivono da generazioni. Se parliamo di governi arabi- premesso che non ho mai avuto molto rispetto per i partiti al potere del mondo arabo che principalmente sono delle dittature -, posso dire che fino ad ora hanno fatto il meno possibile per aiutare i palestinesi pur dicendo a voce che desideravano si trovasse una soluzione al conflitto. C’è in questo modo di fare, un elemento di autoconservazione sia in termini di politica interna che estera. E questo non rende tanti paesi meno responsabili di quanto avviene a Gaza».
Perché i governi arabi hanno assunto questo atteggiamento?
«Hanno due motivi principali. Il primo è quello di non far arrabbiare gli Stati Uniti che sono gli alleati più potenti di Israele. Il secondo motivo è che considerano i palestinesi un popolo di rivoluzionari e sono spaventati per questo motivo, anche perché molti governi arabi sono illegittimi. I leader arabi non si spendono oltre le dichiarazioni piene di retorica e del tutto vuote di significato».
Quanto il suo libro in parte biografico, rispecchia il travaglio di tutti coloro che sono stati umiliati dalla storia?
«Credo che nel mio libro fosse necessaria la componente biografia perché ho iniziato interrogandomi sull’ideologia del liberalismo occidentale. Non potevo portare avanti nessun tipo di analisi senza considerarmi complice di questa ideologia, parte del sistema. Sarebbe stato disonesto per me non includere la componente migliore. Sentivo dentro di me di dover analizzare la mia vita da adulto, perché anch’io spesso ho fatto parte del sistema. Sono nato in Egitto, ed è nel mio stesso Paese che imparai come la crudeltà politica manipola leggi e regole. Ho preso un’altra strada».
Il titolo del suo libro vuole essere un richiamo all’indifferenza attorno alla tragedia di Gaza?
«Il titolo è sinonimo di un momento indefinito nel futuro, anni, decenni, ma molti hanno interpretato «un giorno» come un tempo brevissimo, al massimo una settimana. Pensiamo agli eventi del passato, al tempo che gli americani hanno impiegato per riconoscere il genocidio attuato a carico dei nativi pellerossa: stiamo parlando di un tempo lunghissimo. Molte altre persone hanno pensato a qualcosa di positivo. Ma solo quando la presa di coscienza arriverà sarà da celebrare come un segnale positivo. Il riferimento reale, è qualcosa di negativo, perché prima che si sia capito che quanto accade è mostruoso e orribile, saranno morte tantissime persone. Ho voluto riassumere «in un giorno» l’infinita, e talvolta ingiusta, prospettiva della storia».