«Il mio ingrediente segreto è la memoria»
Galeotta fu una cipolla. Mentre un giorno la sminuzzava nel suo appartamentino torinese, Pino Cuttaia, nato a Licata 55 anni fa, ricevette la «chiamata», come dice lui. «Quella cipolla mi fece capire che con il cibo si poteva comunicare, raccontare una storia; scoprii così la mia vocazione per la cucina», ricorda oggi il grande chef siciliano, protagonista mercoledì prossimo di una cena di beneficenza organizzata dal Lions di Locarno in favore dell’associazione Triangolo. Dopo quell’episodio folgorante, Pino Cuttaia disse addio al posto fisso all’Olivetti e trasformò quello che allora era il suo hobby in un mestiere. Dal Piemonte dove era migrato con i genitori, tornò nella sua Sicilia, dove nel 2000 inaugurò insieme alla moglie Loredana La Madia, il ristorante incastonato nel cuore del paese in cui era nato. Era un autodidatta, certo: ma la sua fu sin da subito una cucina di pensiero. Unendo la precisione nel lavoro che aveva imparato ad apprezzare al nord con i ricordi della sua infanzia siciliana riuscì a farsi strada tra i grandi. Le stelle Michelin non si fecero attendere. Nel giro di dieci anni ne ricevette due: la prima nel 2006, la seconda nel 2009. «Il mio ingrediente segreto? La memoria», spiega lo chef bistellato.
Perché la memoria?
«Perché voglio fare una cucina che parli, che racconti, che risvegli ricordi attraverso ingredienti e profumi. Viviamo in un’era dove si fa sempre meno da mangiare a casa. La mamma non ha più un ruolo domestico perciò rischiamo di perdere per sempre quella tradizione culinaria tramandata di generazione in generazione. Noi cuochi dobbiamo diventare custodi di quella conoscenza preziosa: solo così riusciremo a salvare tutto il nostro patrimonio gastronomico. Se non vogliamo perdere l’identità di un intero popolo, noi cuochi dobbiamo sostituirci alle mamme di una volta, proponendo il più possibile gusti e sapori che rimandano alle radici di ognuno di noi».
Quanto conta la qualità degli ingredienti nella riuscita di un piatto?
«Tantissimo. Io dico sempre di avere due fortune: la prima è di vivere in Sicilia, dove la diversità ambientale e quindi della materia prima è spiccata; la seconda è di essere attorniato da produttori di altissimo livello, che sostengono la mia cucina, come io sostengo la loro attività. Facciamo parte di una ristorazione che è figlia di una filiera di artigiani e ciò mi rende molto fiero».
Quanto è stato importante avere sua moglie al suo fianco fin dall’inizio?
«È stata fondamentale. In questo mestiere non basta il sostegno economico. Se non hai la famiglia al tuo fianco rischi di soccombere. Soprattutto quando Loredana ed io ci lanciammo in questa avventura. Era l’Italia del 2000. Allora si andava al ristorante per ostentare, per trasgredire. Io invece avevo già in mente la mia cucina che rimembra, legata alla tradizione siciliana. Non fu facile tenere dritta la barra. C’è un film che riassume i sentimenti di allora. Si tratta di «Big night». La storia è quella di due fratelli abruzzesi emigrati negli anni ’40 nella East Coast che cercano di far funzionare un ristorante italiano a dispetto dei gusti degli americani. Ad un certo punto uno dei due fratelli sbotta dicendo: «Piuttosto che cambiare preferisco morire». Ecco: pure io provavo lo stesso sentimento. Avevo deciso di fare il cuoco e nessuno poteva fermarmi. E mia moglie era al mio fianco. Sempre».
La sua madeleine di Proust?
«La polpetta fritta. Mia mamma la cucinava di domenica. Ricordo che il suo profumo saliva già dalle scale di casa. Quando sento questo odore ritorno alla mia infanzia. Oggi il bambino non ha più l’occasione di memorizzare queste sensazioni, che sono fondamentali per la sua crescita. Ecco perché il cuoco deve assumersi la responsabilità sociale del ricordo».
Conta più la vista o il gusto?
«Tutt’e due. Per me il colore è sapore. Non sono alla ricerca della superbellezza del piatto, tuttavia sono legato alla perfezione della cucina iperrealistica, che definirei quasi paesaggistica. Voglio essere il più naturale possibile, senza eccedere nella sofisticazione della composizione del piatto».
Nel 2017 ha cucinato per i potenti del mondo riunitisi a Taormina in occasione del G7: sono delle buone forchette?
«In quell’occasione avrei potuto proporre una cucina internazionale ma sarebbe stato troppo scontato. Ho preferito invece seguire la mia linea: ho voluto far conoscere loro il mio territorio. Perciò ho servito ai capi di Stato presenti piatti con cibi che noi siciliani mangiamo tutti i giorni. L’ arancino al forno, la triglia, il merluzzo affumicato. Naturalmente rivisitati. Ricordo in particolare lo stupore di Joachim Sauer, marito dell’allora cancelliera federale tedesca Angela Merkel, quando proposi una cernia su carbonella abbinata al vino rosso. «Ma come - mi chiese perplesso - il pesce con il vino rosso?». Gli risposi che per i pescatori siciliani era tradizione bere vino rosso con il pesce. Era un vino fresco dell’Etna, perfettamente abbinabile con la cernia».
Quale è il peso delle stelle Michelin?
«Le stelle danno più responsabilità, è ovvio. È un riconoscimento che non cerchi, ma che quando arriva ti fa capire che stai facendo un buon lavoro, e che qualcuno si è accorto di te. È come una laurea per uno studente. La pressione? La sente chi non conosce il mestiere».
E la pizza a 1.500 euro servita nell’albergo di Philip Plein a Milano?
«La pizza da 1.500 euro non se la possono permettere in molti. E ciò che è poco accessibile crea il desiderio. Il meccanismo è conosciuto. Sono quelle cose che fanno notizia, ma che non appartengono alla mia visione della vita. Cucinare per me è un atto d’amore. Il cuoco deve nutrire la propria clientela con la stessa cura della mamma con i suoi figli. Ci vuole onestà».
L’ Uovo di Seppia è il geniale piatto che più rappresenta la sua filosofia di cucina, un guscio d’uovo svuotato e riempito di pasta di seppia. In questo momento sta lavorando a una nuova proposta?
«Un piatto nasce da un pensiero, da una stagionalità, da uno strumento. Il cuoco è sempre incinto e quindi non si sa mai quando partorirà una nuova idea».
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