Il personaggio

Il poliziotto «buono» che chiudeva anche due occhi

In una vita in polizia Sandro Bomio Pacciorini ha girato il Ticino – Una mano alla fondina e l'altra sul cuore – A 90 anni, ripercorre la sua carriera
© CdT / Chiara Zocchetti
Prisca Dindo
25.05.2025 10:30

Non fuma la pipa e non è taciturno, eppure Sandro Bomio Pacciorini, ex commissario capo di pubblica sicurezza della polizia cantonale a Bellinzona, ricorda in molti tratti l’ispettore Maigret. Forse per via del fisico ancora robusto, nonostante i suoi novant’anni. «A settembre ne compirò novantuno», precisa senza enfasi, lanciando uno sguardo affettuoso a sua moglie Wanda, novanta anni, con la quale condivide la vita da ben sessantotto primavere. Per un servitore della legge che non ha mai guardato l’orologio, Wanda è sempre stata un porto sicuro, un rifugio tranquillo dopo le fatiche delle lunghe giornate nei commissariati. Questa donna incredibilmente in forma che ci accoglie nella loro casa di Arbedo è discreta e acuta. Ricorda Madame Maigret.

Ma forse, ciò che ancor più avvicina Sandro Bomio al celebre personaggio uscito dalla penna di Simenon, è il modo di intendere il suo mestiere: nei suoi 42 anni in polizia, ha sempre cercato di capire le persone, più che inseguire le prove. Lo si percepisce non appena condivide i suoi ricordi di agente, partendo dai suoi esordi.

Quando la polizia era senza patente

Dopo una parentesi in Svizzera interna, Sandro si iscrive alla scuola reclute di polizia a Bellinzona e ottiene l’abilitazione. Con il certificato fresco di firma in tasca, si iscrive subito ad una autoscuola. Siamo nel 1956 e la formazione dei poliziotti non prevede corsi di guida: per effettuare gli spostamenti, i gendarmi sono costretti ad utilizzare la bici, il treno oppure a muoversi a piedi. «Pensi che a quei tempi dei quarantacinque agenti usciti dalla scuola quell’anno soltanto tre avevano la patente - ricorda il pensionato - Per questo ho deciso di pagarmi di tasca mia i corsi: come potevo constatare un incidente senza sapere guidare? Era un controsenso bello e buono!».

Bomio nella sua casa a Bellinzona
Bomio nella sua casa a Bellinzona

Biasca terra difficile

In veste di gendarme, viene dapprima assegnato a Lugano «dove seguivo casi semplici», poi nel 1957 a Locarno ed in seguito a Biasca. «Ero sorpreso da quest’ultimo trasferimento perché alle spalle non avevo sufficienti anni di servizio per quel posto di appuntato. Malgrado ciò il comandante Lepri mi ordinò di trasferirmi. La verità è che allora Biasca era difficile e nessuno voleva quel posto». In effetti Biasca si rivela un comune non facile da sorvegliare «non amando molto le divise, i biaschesi si comportavano un po’ come volevano, compreso il sindaco di allora: lo sorpresi insieme ai suoi amici a pasteggiare di nascosto in un ristorante tenuto aperto a notte inoltrata in barba ai divieti», confida sorridendo.

Malgrado questo spirito anarchico che aleggiava tra i biaschesi, l’agente Bomio conquista la fiducia di tutti, facendo leva su una dote semplice ma essenziale: il buonsenso.

Gli anni a Rivera

Dal 1963 al 1966 viene trasferito a Rivera «come capoposto di me stesso, visto che ero solo». La quotidianità è scandita soprattutto dagli incidenti e quando ne avviene uno in cima al Ceneri è costretto a farsi strada tra il serpentone di auto incolonnate agitando il cappello da gendarme fuori dal finestrino della sua auto «perché allora la polizia non aveva vetture in dotazione». Stanco di questo tran tran, nel 1966 partecipa al concorso per agenti di pubblica sicurezza - l’attuale Polizia giudiziaria - e viene assunto. È contento di lavorare a Bellinzona, dove nel frattempo si era insediato con la moglie Wanda. Per quindici anni ricopre la funzione di ispettore, poi quella di commissario di pubblica sicurezza. Nel 1981 viene nominato commissario capo del gruppo di pubblica sicurezza, carica che mantiene per sedici anni, fino al pensionamento nel 1997. Durante gli anni bellinzonesi, riceve diverse proposte allettanti «come quando un consigliere di Stato mi chiamò proponendomi il posto di delegato a Locarno». Lui risponde sempre picche perché predilige l’attività al fronte. «Inoltre non avevo nessuna intenzione di lasciare la Capitale», puntualizza.

Il caso irrisolto

Durante gli anni in servizio, Bomio affronta decine di inchieste. Alcune si concludono con successo, altre rimangono senza colpevoli. Tra queste, il cosiddetto «caso Maruca», un omicidio a Bellinzona che lo porta ad indagare fino in Calabria: «Forse qualcuno non gradì il matrimonio annunciato tra Maruca e una ragazza della Capitale, molto probabilmente l’uomo aveva già una moglie promessa in Calabria», ipotizza l’ex commissario.

Le minacce

L’umanità di Sandro Bomio si riflette anche in piccoli gesti. Ogni Natale si reca nelle celle pretoriali per fare gli auguri ai detenuti. Un’abitudine che interrompe dopo un episodio inquietante: trova una cella aperta, con quattro detenuti che bevono qualcosa. Uno lo minaccia apertamente: «Fossimo in Italia, lei non uscirebbe vivo da qui». Un altro prigioniero prende subito le sue difese «lascia stare Bomio che è un bravo poliziotto» dice, ma da quel giorno, il commissario non scenderà più.

Anche fuori dal lavoro conosce momenti di tensione. Ad esempio, dopo aver seguito un caso di omicidio nel Bellizonese, riceve minacce pesanti dal fratello minore dell’accusato finito in cella, il quale si presenta di persona addirittura a casa sua. «Era solo un ragazzo, ma non per questo da sottovalutare. Dissi subito a Wanda di non aprire la porta in mia assenza e tenni alta la guardia», commenta.

Poliziotto fuorilegge

Infrange anche la legge, il commissario Bomio. «È successo negli anni ’60, quando agli operai italiani con il permesso di lavoro stagionale era proibito portare qui la famiglia; non so quanti bambini ho visto sgaiattolare per le strade ticinesi; io rappresentavo la legge quindi avrei dovuto segnalarli, sapevo che se l’avessi fatto, sarebbero stati espulsi dal nostro Paese, perciò ammetto di aver chiuso non un solo occhio, li chiusi tutt’e due», precisa orgoglioso.

L’orrore negli occhi

È quando ricorda una tragedia avvenuta tanti anni fa in Leventina che i suoi occhi diventano umidi. Una madre si suicidò dopo aver annegato le sue due figlie e lui, di picchetto quella notte, fu tra i primi ad arrivare sul posto. «All’epoca non esistevano care team, e certe immagini ti restano dentro», dice guardando sconsolato la sua Wanda. «Forse è il caso più drammatico di cui mio marito si dovette occupare» aggiunge lei con voce lieve. Sicuramente quella notte lei non gli avrà chiesto nulla. Come Madame Maigret, le sarà bastato lanciare un’occhiata a suo marito per capire che lui aveva appena visto qualcosa di terribile, che nessuno avrebbe mai voluto vedere.

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