L'intervista

«Il viaggio di Barents ci insegna tante cose sul presente»

Lo scrittore olandese Frank Westermann ha ripercorso le orme del suo grande connazionale, arrivando fino alla nuova Guerra Fredda
Mariella Delfanti
14.09.2025 06:00

Raccontare il presente a volte significa partire da lontano, come in questo libro, che rievoca la drammatica spedizione di Willem Barents del 1596, nel mare che da lui ha preso il nome. Attraverso il diario di bordo di un marinaio (diario che fu sorprendentemente divulgato e tradotto in varie lingue un paio d’anni dopo l’epoca dei fatti), Frank Westerman ripercorre quelle storie sotto la prospettiva dei «mostri» che durante quel viaggio vennero avvistati o cacciati. Ne individua sette, e a ognuno di essi dedica un capitolo. Ma questo libro è qualcosa di più di un reportage o di un saggio, o di un bestiario come il titolo italiano suggerisce; è una miniera di aneddoti e di riflessioni che ci riportano al presente e ai temi che ci riguardano, in primis quello della sopravvivenza nostra e degli animali in un’epoca attraversata da conflitti etnici, socioeconomici, e geopolitici. Ne abbiamo parlato con l’autore a Mantova, in occasione di Festivaletteratura, dove il libro è stato presentato.

Frank Westerman, lei si serve della ricostruzione del viaggio di Barents per riflettere su temi del presente, come l'emigrazione, il riscaldamento globale, il ritorno della guerra fredda. Come ha lavorato?

«Come un scoiattolo, prendendo qua e là, guidato dalla curiosità e dall’arte del divagare, sempre nella consapevolezza del presente. Lo scopo del viaggio di Barents era economico e politico. Volevano aprire la rotta del Nord verso la Cina per raccogliere tasse e in cambio di una ricompensa di 25mila fiorini. Era un’alternativa alla rotta del Sud dove c’erano portoghesi e spagnoli a mettere i bastoni tra le ruote. Ma se lo confronta con le aspirazioni di Trump sulla Groenlandia oggi, o di Putin, della Cina e della NATO per il controllo dell’Artico si tratta dello stesso gioco geopolitico molto importante in corso. Per effetto del riscaldamento globale la rotta via mare verso la Cina oggi è aperta: la navi transitano, arrivano fino a Rotterdam, pagano le tasse a Putin e nessuno dice niente».

Un gioco geopolitico completamente cambiato dopo l’invasione russa dell’Ucraina?

«Le faccio un esempio. Per circa trent’anni i rapporti tra Norvegia e Russia sono stati buoni, fino al dicembre del 2022 quando una quarantina di renne attraversano indisturbate la frontiera tra i due Paesi. Per i russi sono immigrati clandestini che vengono presi in ostaggio. Chiedono un riscatto di quattro milioni di euro e la Norvegia paga! Non so quanto in realtà, ma hanno pagato. Ecco, su una scala più piccola, una conferma che la cortina di ferro è tornata a esistere. Io penso che molte piccole storie riflettono quelle più grandi».

A quelle latitudini quante cose impensabili succedono?

«Pensi ai cinquemila siriani che nel 2015 varcarono indisturbati il confine più a Nord d’Europa in bicicletta: furono incoraggiati dai Russi che volevano sbarazzarsene, ma alla fine il governo norvegese corse ai ripari. O si pensi al caso delle oche selvatiche: hanno svelato molto prima di Solzenicyn le atrocità commesse nei Gulag».

A che cosa si riferisce?

«Ormai la conclusione condivisa è che la loro sparizione dai polder olandesi negli anni Trenta fu il frutto della strage operata, per motivi di sopravvivenza, dai prigionieri del Gulag voluto da Stalin. Per molti anni si diede la colpa alla costruzione della diga dello Zuiderzee che aveva fatto sparire le alghe di cui le oche si nutrivano. Da allora però i nostri sensi di colpa ci hanno portati a investire un sacco di denaro pubblico nella rinaturalizzazione di un intero territorio destinandolo a pascolo. Il tentativo degli olandesi è semplicemente patetico! Le oche colombaccio sono tornate, ma a scapito delle monocolture dei campi vicini! La ricreazione di un ecosistema rischia di rovinare un equilibrio delicatissimo».

La prospettiva animale è la chiave di lettura del suo libro: lei prova a mettersi nei panni degli animali, come nel caso dell’orso o dell’anguilla. E questo ci porta alle teorie di Bruno Latour. Che cosa ne pensa?

«In Olanda c’è un forte movimento che, ispirandosi a Latour, sostiene la teoria del Parlamento delle cose. Pensano che un animale, come l’anguilla e così il mare, così le dune, dovrebbero avere una voce, una voce legale. Ad esempio il fiume Mosa dovrebbe essere rappresentato in una corte contro l’inquinamento. E il Mare del Nord avrebbe diritto alla rinaturalizzazione. Il caso delle anguille che devono essere accompagnate nel loro esodo verso il mar dei Sargassi per la riproduzione è stato molto dibattuto in Olanda dove gli attivisti vorrebbero introdurre lo stesso principio che in Equador ha iscritto la Madre Terra nella costituzione. Ma quando l’uomo interviene spesso i danni sono superiori ai vantaggi. Abbattere le dighe per favorire la migrazione delle anguille è un bene per i pesci, ma un pericolo per le maree e le inondazioni improvvise».

Le storie che lei racconta sono tutte vere, ma a volte così incredibili che sembrano false. La più falsa di tutte non è quella dell’attacco terroristico sventato sul ponte di Londra, grazie a due zanne di narvalo?

«Sembra, ma è rigorosamente vera e documentata su Internet, anche se io stesso non avrei mai creduto che un attacco terroristico potesse essere sventato grazie al corno di un... unicorno. E che per giunta questo cimelio appartenesse al duca di Edimburgo!».

Una storia altrettanto bizzarra è quella dei Lemming suicidi. Qual è l’importanza della narrativa nella nostra percezione del reale?

«È fondamentale. Nel 1958 un documentario di Disney (consultabile ancora oggi su Youtube) vinse un Oscar mentre immortalava per la prima volta il tuffo di massa dalle scogliere. Solo una quindicina di anni più tardi si scoprì che il tuffo era il frutto di un falso, ma che l’annegamento collettivo esista è un dato reale. Prendiamo il caso dell’orso polare: visto con gli occhi di William Barents era un mostro; mentre ai nostri giorni l’orso è l’icona del cambiamento climatico e viene percepito come un piccolo da vezzeggiare. Un paio di anni fa in Germania un cucciolo nato in uno zoo e rifiutato dalla madre, divenne il beniamino dell’intera nazione. Ecco vede, l’orso non è cambiato, continua a vederci come se fossimo foche in piedi, ma il nostro modo di guardare l’orso sì, e questo a causa della narrativa».

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