«Io musulmano lotto contro i fanatismi»

Nato nel deserto algerino, Mohamed Hamdaoui è arrivato a Bienne a 3 anni per curare la poliomielite. Cresciuto da una volontaria di Terre des Hommes, è diventato giornalista e si è impegnato politicamente con il Partito socialista. In prima fila nella difesa della laicità, si è battuto a favore del divieto del burqa, ciò che nel suo partito gli è valso molte incomprensioni. Allora lui se ne è andato e si è accasato al Centro. Continuando la sua battaglia per la laicità. È stato lui, ad esempio, a chiedere di vietare le pubblicità bibliche sui trasporti pubblici.
Signor Hamdaoui, che fastidio le danno i versetti della Bibbia?
«Le spiego come è andata. Era una domenica, stavamo facendo l’aperitivo su una terrazza di Bienne quando è passato davanti a noi un bus con un messaggio religioso sulla fiancata. Io mi sono preoccupato e ho presentato un atto parlamentare per chiedere di vietarli».
Perché dovrebbero essere vietati?
«Io ho un grande rispetto per le religioni, per tutte le religioni. Ma viviamo in un mondo in cui la religione diventa sempre più politica e suscita fanatismo tra le persone. Credo che ci voglia moderazione e questa passa dalla laicità».
Un versetto biblico suscita fanatismo?
«No, ma mi sono chiesto cosa succederebbe se domani un Nicolas Blancho o un qualche altro islamista chiedesse di scrivere "Allah akbar" sui bus. Come reagirebbero le persone? Per parità di trattamento, non si potrebbe impedirlo. Io volevo solo renderne attente le autorità».
Invece si è attirato una sfilza di insulti.
«Avevo sottostimato un aspetto. Quando le persone hanno visto che la proposta arrivava da un Mohamed, hanno pensato che fosse un attacco contro i cristiani. Francamente non è proprio il caso, io sono cresciuto in una famiglia cristiana e adoro andare nelle chiese. Ogni volta che vengo in Ticino, spesso, il primo riflesso quando arrivo in un paese è di andare in chiesa. Trovo che siano posti magnifici».
Viene spesso in Ticino?
«Sì, sono molto legato al vostro cantone. Sono cresciuto in una famiglia povera, che si permetteva solo una vacanza ogni cinque anni. Ed era sempre in Ticino».
Diceva del nome Mohamed... è un nome difficile da portare?
«All’inizio non ci avevo minimamente pensato. Ma è vero che sarebbe stato più facile condurre quella battaglia se mi fossi chiamato Romeo o Julien. Certa gente ha pensato che io fossi un islamista, quando in realtà io combatto gli islamisti da quando avevo 20 anni».
Da quando le uccisero la fidanzata?
«In realtà era una mia amica molto vicina, speravo diventasse la mia fidanzata. Venne uccisa dagli islamisti, in Algeria, poiché si rifiutava di portare il velo. Fu un atto che mi traumatizzò e mi indusse a impegnarmi in politica. Non voglio che qui in Svizzera si viva la stessa situazione che si visse in quegli anni in Algeria».
Sono due mondi ben diversi.
«Sì, però mi spaventa questo mondo in cui la religione, che dovrebbe essere una cosa bella e spirituale, diventa uno strumento politico e dogmatico. Se non si fa attenzione a difendere la laicità, si rischia di avere dei problemi».
Ne vede già?
«Io ho paura quando vedo che al ginnasio ci sono sempre più adolescenti che indossano l’abaya, quel vestito nero che lascia vedere solo il viso. Queste ragazze dicono che è una loro scelta. Ma questa è l’uniforme degli islamisti! Preferisco che a dirlo sia qualcuno come me, piuttosto che lasciare spazio a politici di destra che passeranno per razzisti. In ogni caso non mi si potrà tacciare di islamofobia visto che sono io stesso musulmano».
È con questo spirito che ha sostenuto l’iniziativa per il divieto del burqa?
«Sì, il mio era uno spirito diverso da quello del comitato di Egerkingen. La loro è islamofobia, la mia è solidarietà nei confronti delle donne musulmane».
Solidarietà?
«Sì, vediamo cosa succede oggi in Afghanistan, o in Iran con il velo. Se ci sono donne che corrono rischi e sono pronte a morire per non dover indossare quella robaccia che è simbolo di integralismo - direi anche di fascismo - per me era evidente sostenere la loro battaglia».
Non tutte le donne saranno state d’accordo con lei.
«Quello che mi ha profondamente toccato è che molte compagne del mio partito di allora, il PS, tutte femministe che oggi hanno 60 o 70 anni, si complimentavano con me e mi ringraziavano. Loro vedevano la difesa del burqa come una forma di regressione rispetto alle battaglie che avevano condotto».
Però il PS era contrario al divieto.
«Sì, questo è uno dei motivi principali per cui ho lasciato il PS. Le giuro che mi ha fatto malissimo, perché è la mia famiglia politica da quando sono adolescente. Ma purtroppo c’è una sorta di cecità su questi temi».
Cosa intende?
«Loro dicono che non bisogna parlarne per non aizzare le paure, che non bisogna scendere sullo stesso campo di quei cattivi razzisti dell’UDC. Io non sono d’accordo. È necessario che anche le persone che si qualificano come progressiste possano esprimersi».
Perché lei ha scelto di fare il giornalista?
«È una vocazione, non ho mai pensato di fare altro, tranne un periodo in cui mi immaginai di diventare cuoco. In realtà già quando avevo 6 o 7 anni accendevo la radio e mi appassionavo alle storie che sentivo. Il momento decisivo fu però quando vidi un libro sulla Shoah in biblioteca e mi misi a piangere. La maestra mi disse che quelle cose erano successe perché allora non c’erano giornali che le raccontavano. Fu allora che decisi di diventare giornalista, per evitare altre tragedie. Poi ne sono successe lo stesso, ma continuo a credere nell’importanza del giornalismo».
Ora per chi lavora?
«Lavoro per un settimanale qui a Bienne e scrivo su altre testate. In passato ho lavorato per la RTS e sono stato corrispondente a Palazzo federale ma ho dovuto smettere quando ho assunto cariche politiche».
Perché lei è passato al Centro?
«Dopo essere uscito dal PS sono stato contattato da Mister Prezzi, Stefan Meierhans, che conosco da molto tempo. Mi ha convinto, anche perché la sezione bernese del Centro è molto progressista, molto aperta sulle questioni di società. È stata la prima sezione a chiedere l’adesione della Svizzera all’UE o la depenalizzazione della cannabis».
Quindi lei è un centrista progressista?
«Sono una persona di centrosinistra. Oppure direi di centro con una forte anima sociale. Mi identifico in personaggi come i ticinesi Chiara Simoneschi-Cortesi o Meinrado Robbiani».
Va ancora d’accordo con i socialisti?
«Certo, io resto di centrosinistra. Il problema con il PS è che è diventato troppo dogmatico. Io non amo il dogmatismo, ho bisogno delle mie libertà. Ma vado d’accordo con i socialisti, come posso andare d’accordo anche con gli UDC. Trovo che sia tipicamente svizzero essere capaci di lavorare con gli altri. Magari non proprio con tutti perché alcuni sono meno rispettabili. Ma con la grande maggioranza sì».
Bisogna essere aperti.
«È la definizione stessa della Svizzera. Siamo un piccolo Paese con persone di lingue, culture e tradizioni diverse. Se siamo ancora qua è perché siamo capaci di rispettarci, discutere e lavorare insieme. Mi fa paura vedere partiti che diventano sempre più dogmatici, che vogliono escludere gli altri. Non mi piace. Oppure dicano chiaramente che vogliono cambiare sistema. Ma allora la Svizzera scomparirebbe».