«La cultura che cancella il passato è degenerata in un clima di paura»

lluminare il passato con la luce del presente. Applicare sensibilità e ragioni del contemporaneo per giudicare opere, idee, parole di chi è vissuto secoli prima. Dimenticando l’importanza del contesto. Si parla molto, da qualche tempo a questa parte, della cosiddetta cancel culture, o cultura della cancellazione. L’evoluzione spinta all’inverosimile del vecchio politicamente corretto. Libri censurati, docenti costretti a lasciare le cattedre, temi banditi dal dibattito culturale: l’argomento è di strettissima attualità, soprattutto negli Stati Uniti, e sarà oggetto di discussione a Lugano, al Möbius Festival, il prossimo 12 ottobre, in una tavola rotonda cui è stata invitata Costanza Rizzacasa d’Orsogna, scrittrice e giornalista, autrice per Laterza nel 2022 di Scorrettissimi. La cancel culture nella cultura americana.
Costanza Rizzacasa, dove nasce la cancel culture e perché sta succedendo tutto questo?
«Innanzitutto vorrei sfatare un equivoco di fondo. Molti credono che tutto quello che stiamo vedendo, la sensibilità accresciuta verso parole e temi, derivi da movimenti quali #metoo e Black Lives Matter. E invece no, bisogna andare molto più indietro nel tempo. Le cause sono da ricercarsi in quello che è accaduto nelle università, nella politica e anche all’interno della famiglia negli ultimi 30-40 anni. Gli esperti invididuano almeno sette trend per spiegare quanto sta accadendo».
Un po’ troppi da sintetizzare in una sola intervista.
«Lo capisco. Limitiamoci allora ai tre più pregnanti, quelli che possono dare una panoramica efficace. Ad esempio, l’adozione di codici di linguaggio nei campus universitari degli Stati Uniti. Quando mi sono trasferita negli States, nel 1991, avevo appena finito il liceo e queste cose erano proprio in atto. All’inizio non sembrava una cattiva idea, nessuno pensava che potesse degenerare. Sembrava un bel modo di rispettare gli altri, le loro culture, le loro identità».
E poi?
«Poi, invece, tutto è cambiato. Anche in modo inatteso».
In che senso?
«In America, il Freedom of Speech, il primo emendamento alla Costituzione sul diritto di espressione, è sentito in maniera molto forte. Nel 1995, un Tribunale decretò l’incostituzionalità del codice di linguaggio adottato dalla Scuola di legge dell’Università di Stanford. Codici che si accompagnavano inevitabilmente anche a regole di comportamento. Sembrò quindi che quanto stava accadendo dovesse essere accantonato, messo da parte. E invece no. Per nulla. Tanto è vero che nel 2009, due terzi dei college americani avevano adottato codici di linguaggio estremamente restrittivi. Non solo: in molti campus proliferavano vere e proprie commissioni «inquisitorie» che, ponendosi l’obiettivo di scardinare i pregiudizi, permettevano a chiunque di presentare esposti, anche in forma anonima, contro chi violava questi codici. Nell’Università del Delaware, alla fine degli anni 2000, gli studenti erano sottoposti a interrogazioni su una varietà di questioni personali, tra cui l’orientamento sessuale, il giudizio sui matrimoni gay, la frequentazione di persone con la pelle di diverso colore. Se le risposte non combaciavano con i nuovi modelli di comportamento, allora veniva chiesto di riformularsi, venivano date loro linee guida e persino proposte persone cui affiancarsi per correggere le idee sbagliate. Chiaramente questo è un caso limite, ma di situazioni simili ce ne sono state molte».
Torniamo alle cause principali dell’affermazione della cancel culture.
«Sì. Un altro degli aspetti a mio avviso determinanti è stato il modello parentale educativo improntato al cosiddetto safetyism, cioè la sicurezza emotiva del bambino come valore fondamentale, come valore essenziale, cruciale. Ricorderai che tempo fa si parlava di «genitori elicottero», quei genitori che, come l’elicottero appunto, sorvegliano dall’alto tutto ciò che succede, intervenendo subito in caso di bisogno. A questi genitori elicottero si sono sostituiti i «genitori tosaerba», i papà e le mamme che, come i tosaerba, eliminano tutti gli intralci, le erbacce che il bambino potrebbe incontrare sul suo cammino, quindi ancora prima che li incontri».
Costruiscono una società senza ostacoli, insomma, che non ha riscontro con la realtà.
«Esattamente. Pensiamo a quella scuola del Nord Italia che ha deciso di abbandonare il voto in favore di un giudizio descrittivo dello scolaro. In linea generale va bene, è chiaro che un voto può non rappresentare in modo corretto un alunno che magari è bravissimo, studia, ma poi nelle interrogazioni si blocca perché timido o impacciato. Il voto è forse una sintesi riduttiva, però attenzione: se cominciamo a eliminare i voti, a eliminare tutte le cose che possono far piangere un bambino, un adolescente, che cosa ne sarà di questo bambino o di questo adolescente quando entreranno nella vita vera e si troveranno magari ad affrontare un licenziamento o un divorzio? La scuola a questo dovrebbe preparare: ad affrontare gli ostacoli della vita, non soltanto a imparare a memoria una poesia».
E il terzo trend?
«Negli ultimi anni, soprattutto negli USA, ma non solo, siamo arrivati a un punto di non ritorno nel livello di polarizzazione politica. L’abbiamo visto: le divisioni sono tali e tante che alla fine della presidenza di Donald Trump si è giunti addirittura a un passo dal colpo di Stato con l’assalto a Capitol Hill. L’ideologia ha trionfato sulla politica, che è diventata identitaria. Le persone si identificano con quello in cui credono, dalle convinzioni in tema di matrimonio gay a quelle sull’aborto. In una politica estremamente gridata non si ascolta l’altro, piuttosto lo si vuole sopprimere, facendo trionfare le proprie idee».
E ciò vale anche per il “discorso”.
«Proprio così. Quella fantastica invenzione del debate, il dibattito, un caposaldo dell’istruzione americana a tutti i livelli, oggi non c’è più. Il debate che si faceva già alle elementari, dove la maestra affidava a un bambino il compito di difendere un’idea, che ci credesse o no, e a un altro bambino l’idea opposta, è scomparso. Il punto è che mentre prima, nello scambio di opinioni che arricchiva tutti, le idee proliferavano, adesso si vuole soltanto vincere».
Guerre culturali che possono diventare guerra civile. Qualcuno, almeno, lo teme.
«Dopo il tentato colpo di Stato del 2021, negli USA si è cominciato a parlare apertamente di rischio di guerra civile negli Stati Uniti. Una prospettiva cui hanno fatto cenno sia il direttore del New Yorker sia una politologa come Barbara F. Walter».
Purtroppo, pare di capire, le guerre culturali sono combattute a destra così come a sinistra.
«È vero, ci sono sia una cancel culture di sinistra sia una cancel culture di destra, più comunemente chiamata censura. La censura di destra negli Stati Uniti riguarda ad esempio la storia. I conservatori contestano, ad esempio, che nelle scuole si insegni il periodo della schiavitù. Al posto delle deportazioni vorrebbero che si usasse il termine «trasferimenti». Per cui 300 o 200 anni fa i dannati della Terra attraversavano l’oceano e andavano a lavorare nelle piantagioni non perché vi erano costretti, ma perché volevano «trasferirsi» in America. Altro esempio, i campi di concentramento in cui furono internati i giapponesi-americani dopo Pearl Harbor. O le riserve ghetto dei nativi. Tutti argomenti di cui non si dovrebbe più parlare».
Un’assurdità, così come il desiderio a sinistra di censurare i classici della letteratura antica o scrittori come Mark Twain.
«La continua censura di autori del passato, come posso dire, rasenta il ridicolo e personalmente la trovo assolutamente barbarica. Un romanziere scrive utilizzando le parole del proprio tempo. Quando pubblicò Le avventure di Huckleberry Finn, Mark Twain non poteva non usare la parola «nigger» (negro). Non solo perché all’epoca non era considerato, come oggi, un vocabolo inaccettabile, ma perché il libro parla di razzismo. È un grande romanzo antirazzista. Nella vita Twain era un convinto antirazzista: fu lui, pagandogli la retta, a dare la possibilità al primo studente nero di laurearsi in Legge a Yale. Purtroppo, però, il problema non si ferma alla fine dell’800».
Intende dire che riguarda anche l’oggi?
«Senza alcun dubbio. Anche oggi molti manoscritti rimangono nei cassetti degli editori per la paura di pubblicare qualcosa che possa urtare una categoria di lettori. Anche in Europa, e non solo negli Usa, le case editrici si affidano ai sensitivity readers; non se ne parla tanto, ma ormai i testi sono vagliati con attenzione, perché alla fine ciò che conta sono i soldi. Nessuno vuole rimetterci. E questo testimonia il livello di minaccia della cancel culture, che instilla un senso di paura incompatibile con la libertà. Le parole da sole non fanno male. È vero, in alcuni casi possono diventare dannose o pericolose. Ma più che cancellarle, allora, dovremmo imparare a usarle meglio».