La grande fuga dall'Alta Vallemaggia, ma c'è chi non molla
La fuga di Christine e Elio Biadici è iniziata cinque minuti prima del disastro, e continua tuttora. Sono usciti di casa alle 00.15 di domenica scorsa in pigiama, dopo l’ultimo SMS ai figli («la casa sta andando, noi scappiamo»). Alle 00.20 hanno guardato dall’alto l’acqua travolgere il lavoro di una vita.
Adesso la casa è attraversata dal fiume Peccia, che una settimana fa scorreva affianco alla loro stalla, e il signor Elio scende da San Carlo con i pochi mobili recuperati dai volontari - il pianoforte della moglie, un tavolo di legno - per sottrarli alla pioggia che ritorna. Christine lo aspetta nella Bassa Valle, a casa di parenti. «Ho sbrigato un po’ di burocrazia - racconta - e ho iniziato a cercare un appartamento da affittare a medio-lungo termine».
L’esodo forzato
I Biadici sono una delle tante famiglie sfollate dalla Alta Vallemaggia nei giorni scorsi - venerdì le autorità hanno disposto l’evacuazione di diverse frazioni, via terra e in elicottero - e sono tra quelli che probabilmente non faranno ritorno. La fattoria dove vivevano è inagibile, non lo sarà mai più. «Pensavamo di trascorrere lì la vecchiaia in pace» piange la 55.enne, madre di tre figli che «per fortuna» vivono lontano. «Hanno lasciato la Valle per lavoro, come tanti giovani. Adesso tocca fare lo stesso anche a noi».
Da ieri fino a nuovo ordine - ma l’allerta dovrebbe rientrare lunedì - è stata dichiarata zona «rossa» quasi tutta la Val Bavona, l’abitato di Prato Sornico, gran parte delle abitazioni del Piano di Peccia e la frazione Bola-Croisa vicino a Mogno. Se per chi ha perso tutto la «fuga» è stata un’esigenza pratica - la salvezza - prima ancora dell’evacuazione collettiva, per altri è una questione anche psicologica. «Tante persone non si sentono più sicure a stare qui - dice Christine -. Non sanno se riusciranno a vivere ancora da queste parti».
Al ristorante Monaci di San Carlo, che ha raccolto il dolore e la solidarietà del paese nel corso della settimana, la titolare Olivia Hirling ha «soccorso» con cibo e bevande diverse persone rassegnate. «Dire quanti non torneranno più è difficile. Soprattutto per gli anziani, è difficile staccarsi dalle proprie radici».
«Uscita definitiva»
In tanti nella giornata di ieri hanno attraversato verso sud il ponte di Visletto che, come comunicato dalle autorità, è ora di nuovo aperto alle auto (tra le 7 e le 10 e tra le 15 e le 17) ma solo per «l’uscita definitiva senza rientro». Per qualcuno l’espresione vale in senso letterale. «Anche se volessimo, non abbiamo più terreni dove costruire una casa da zero: è tutto coperto di detriti» spiega Christine Biadici mostrando le foto del bed&breakfast a cui aveva adibito parte della casa (l’annuncio è ancora online) prima e dopo il disastro. «C’è poco da fare».
Ad altri è andata meglio. Anche Juanito Ambrosini ha dovuto lasciare forzatamente la sua casa, la prima entrando a San Carlo. «Ha subito solo danni esterni» spiega l’ingegnere agronomo, già soccorritore specialista d’elicottero per la Rega. «Il problema è piuttosto quello che c’è sopra. C’è un accumulo di materiale slavato, che con la pioggia potrebbe venire giù. Il geologo cantonale è stato qui in settimana ma per ora non sa ancora cosa fare. A titolo precauzionale, mi sono trasferito in un luogo più sicuro, da mia mamma a Broglio».
Non troppo lontano, in modo da poter essere presente dove c’è bisogno di aiuto. «La mattina dopo la tragedia sono uscito di casa alle 5 e ho cercato di aiutare ovunque fosse possibile aiutare - racconta -. Ora sto lavorando sui tetti, ho fatto diversi recuperi di animali, ci sono ancora cinque manze di mio figlio che si trovano in valle Bavona e devono essere elitrasportate. Perché la stalla è rimasta intatta, ma intorno non c’è più un metro quadrato di terreno».
Chi va e chi resta
Mancanza di terreni edificabili o coltivabili, pochi posti di lavoro, servizi già scarsi e che vengono meno: ai motivi cronici dello spopolamento ora rischia di aggiungersi la rassegnazione. L’azienda agricola Biadici doveva passare a uno dei figli, intenzionato a rientrare dalla Svizzera tedesca per dedicarvisi: dovrà cambiare i piani. Juanito Ambrosini ha due figli agricoltori, che si stanno seriamente chiedendo se abbia un senso proseguire la loro attività. «Uno adesso è sull’alpe di Porcaresc, in valle Vergeletto - spiega il padre -, l’altro ha portato le capre in Svizzera interna. Qui non ha senso restare. Già solo con il lupo era diventato impossibile andare avanti con la pastorizia. Le capre hanno paura, non escono più dai recenti, non si può vivere così».
Nonostante tutto, Ambrosini è tra coloro che sono convinti di tornare in valle e farla rivivere. «Territorialmente parlando, la valle è distrutta - afferma -. Ma da buoni vallerani, si cade e ci si rialza. Dove possibile, si ricostruirà. Già in passato ci sono state tragedie, probabilmente sono eventi che si ripetono nella storia. L’esempio della chiesa di Gannariente è lì da vedere».