L'analisi

La guerra silenziosa del Sudan

Centocinquantamila morti e nessuna protesta - Cosa sta succedendo nel paese dilaniato da 12 anni di conflitto civile
©Mohammed Jammal
Guido Olimpio
02.11.2025 15:00

Quello in Sudan è un conflitto per troppo tempo «dimenticato». Niente marce di protesta, nessuna grande mobilitazione per protestare contro ciò che accade: sono morte 150 mila persone mentre parte della popolazione ha dovuto lasciare la propria casa, profughi braccati dalle bombe, dalla fame, dalla pulizia etnica. La guerra è iniziata nel 2013 per un duello di potere tra il presidente, il generale Abdel Fattah al Burhan, e il suo vice, Mohammed Dagalo, alias Hemetti, capo delle Forze di supporto rapido (FSR), milizia costola dell’esercito. I combattimenti sono diventati subito feroci, i governativi hanno usato l’aviazione conseguendo qualche risultato ma ciò non ha impedito al nemico di avanzare su diversi fronti. Attualmente al Burhan controlla la capitale, Karthoum, e l’est del paese, i ribelli hanno in mano il sudovest e il confine occidentale, inoltre hanno guadagnato posizioni nel settore centrale.

L’ultimo sviluppo bellico significativo è stata la conquista da parte delle FSR della cittadina di El Fasher, assediata dall’aprile di un anno fa. I miliziani hanno usato tattiche antiche e armi moderne: da un lato hanno costruito un muro lungo il per imetro della località per bloccare gli assediati e impedire l’arrivo di aiuti, dall’altro hanno bombardato in modo continuo. E una volta assicurata la vittoria si sono lanciati, come già in passato, in uccisioni indiscriminate ai danni dei civili. Eccidi documentati da video «girati» dagli stessi aguzzini. Un ufficiale si è vantato di aver eliminato 2 mila persone. Non sono stati risparmiati neppure centinaia di feriti di un ospedale. Trucidati. Questa è uno degli aspetti più brutali, documentati da organismi indipendenti internazionali: i combattenti di Dagalo sono stati accusati ripetutamente di crimini, violenze terribili che avevano «riservato» in precedenza alle popolazioni del Darfur. Arabi contro africani. Molte le denunce su esecuzioni sommarie, stupri su scala massiccia, torture, punizioni collettive inflitte a comunità incolpevoli.

La sfida dei generali non è però soltanto un duello tra «raìs». Se vanno avanti è perché i due schieramenti godono di appoggi internazionali rilevanti, alcuni interventi esterni hanno condizionato l’andamento del confronto sul terreno. Al Burhan ha il sostegno di Turchia, Qatar e Iran. I tre governi trovano sponde negli apparati, un’eredità del vecchio potere della Fratellanza musulmana e dunque hanno spedito equipaggiamenti fin dai primi giorni. Di diverso tipo il coinvolgimento dell’Egitto. Il Cairo, non ama certo la deriva «islamica», però, considera Khartoum un buon alleato nella disputa con l’Etiopia per la diga sul Nilo, vede il Sudan come una sorta di cuscinetto, ha interesse a mantenere buone relazioni per garantire la sicurezza in Mar Rosso.

Dagalo, invece, conta sull’assistenza generosa e ampia degli Emirati Arabi Uniti e della Cirenaica libica guidata dal generale Khalifa Haftar con un network nel vicino Ciad. La monarchia del Golfo gioca la sua partita per quattro ragioni: 1) Ha investito nel settore agricolo e importa grandi quantità di oro dalle miniere sudanesi. 2) Agisce in risposta alle mosse dei rivali qatarini e turchi, considerati parte del disegno strategico della Fratellanza. 3) Cerca di assicurarsi nuovi approdi sul Mar Rosso, un prolungamento della collana di basi creata a partire dalla Somalia. 4) Ricambia il coinvolgimento di elementi delle FSR nella campagna anti-Houthi nello Yemen.

Gli Emirati hanno fornito droni cinesi e sistemi anti-aerei rivelatisi decisivi negli ultimi mesi. Un flusso garantito da un ponte aereo condotto con grandi aerei da trasporto di fabbricazione russa IL 76. Una pista in Ciad diventata il terminale del traffico di velivoli che spesso hanno fatto una deviazione su Bosaso (Somalia), altro avamposto emiratino, per poi proseguire verso nord. Insieme alle armi avrebbero trasferito mercenari colombiani assoldati dagli emiratini in qualità di consiglieri. E l’impatto si è visto. Interessanti, infine, le piroette di Mosca. Dopo aver simpatizzato per le milizie ribelli, il Cremlino ha rinsaldato i legami con i governativi, una scelta favorita dalla prospettiva di ottenere uno scalo per la sua Marina militare a Port Sudan. C’è già un accordo di principio. Più neutrali gli occidentali, alle prese con Ucraina e Gaza: c’è stato un tentativo di mediazione americano insieme a partner regionali, ma al momento hanno prevalso la diffidenza e i fucili. A pagare i più deboli.

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