Il dibattito

La guerra tra i banchi a Lugano

Così il conflitto tra Israele e Gaza irrompe sulle scuole ticinesi: una lezione al LiLu1
Un momento della lezione, giovedì scorso. © CdT / Chiara Zocchetti
Davide Illarietti
26.11.2023 13:00

Come sempre, la prima mano alzata è della studentessa in prima fila. Piglio sicuro e risposta giusta: «La guerra è solo il risultato di una serie di avvenimenti storici» dice. Il «sore» alla lavagna annuisce.

È la quarta lezione nella classe di opzione complementare al primo piano del «vecchio» Liceo Lugano 1. Pareti scrostate, il soffitto è coperto da una rete para-calcinacci che sa - anche lei - un po’ di emergenza. Il restauro è imminente: presto gli studenti saranno trasferiti in un enorme complesso di container allestito nel parco Ciani, una sistemazione provvisoria destinata a durare ben quattro anni.

La precarietà prolungata è un tema familiare agli allievi del professor Maurizio Binaghi che da settimane si arrovellano sulla storia dei profughi palestinesi e le ragioni del conflitto in Medio Oriente. Dopo l’attacco del 7 ottobre in Israele, vari docenti non solo al Liceo L1 si sono chiesti come e se affrontare il tema. Binaghi è navigato - presiede tra l’altro l’Associazione ticinese insegnanti di storia - ma ha dovuto pensarci su. Con gli allievi di prima non se l’è sentita e ha preferito trattare l’argomento in modo trasversale: le tre religioni monoteiste, i loro innumerevoli punti di contatto, sfruttando lo studio del Medioevo.

Con i ragazzi di quarta è diverso. Ad eccezione di due - contati per alzata di mano - quelli che hanno scelto l’opzione complementare «Comprendere il tempo presente» sono tutti maggiorenni e aventi diritto di voto, appassionati alla materia. Stavano trattando la guerra di Corea - «la guerra fredda, da cui è nato tutto» - quando la situazione a Gaza è degenerata. Per qualche settimana hanno continuato a studiare il 38° parallelo, Kim Il-Sung e il generale McArthur. Poi il «sore» ha virato su quella che i manuali chiamano la «questione israelo-palestinese» dalle origini a oggi.

Binaghi tratteggia sulla lavagna una linea del tempo che parte dalla dichiarazione d’indipendenza israeliana (1948), passa per le guerre dei Sei Giorni (1967) e dello Yom Kippur (1973) per arrivare fino a oggi. Alle sue spalle intanto il dibattito si accende mentre il registratore de «La Domenica» gira tra i banchi a raccogliere opinioni ed emozioni.

Queste ultime oscillano tra paura dell’antisemitismo e solidarietà per i civili a Gaza. C’è chi è più filopalestinese, come Carlo (i nomi sono di fantasia) anche lui in prima fila: «Stiamo assistendo a un genocidio e l’Occidente non fa niente» incalza. «Con la Russia abbiamo visto sanzioni e aiuti militari. E ora?». Dall’ultima fila si alza un’altra mano. «Io faccio più fatica ad avere un’opinione, è un conflitto complicato in cui è difficile trovare buoni e cattivi» argomenta Francesco. Il vicino di banco si intromette: ha studiato e sottolinea che la crisi attuale nasce da «problemi irrisolti che si trascinavano da 70 anni» e cita a spanne i precedenti sbirciando la lavagna: «Quante crisi c’erano già state?». Qualcuno suggerisce a caso: «Tre!». «Quattro» corregge un altro. Chissà.

È inevitabile, le opinioni sono più delle conoscenze a inizio corso e l’obiettivo è invertire la proporzione: non a caso, nei prossimi mesi il Liceo L1 ha organizzato un ciclo di quattro incontri con ospiti esterni (storici e giornalisti) per sostenere il lavoro dei docenti e uscire dalla dinamica «talk-show».Iniziative e corsi simili stanno spuntando anche in altri istituti - Lugano, Mendrisio, Bellinzona - non per iniziativa del DECS ma di singoli insegnanti e coordinamenti. «I ragazzi sono molto coinvolti» spiega Alessandro Frigeri, membro della commissione d’istituto di scienze umane. «Volevamo dare loro delle risposte uscendo dalla polarizzazione che caratterizza il dibattito in questo momento».

Nella classe di Binaghi intanto la discussione continua. Sempre più mani alzate, una studentessa zitta zitta in disparte rivela - interrogata - che ha origini ebraiche, è preoccupata per i parenti in Israele. Silenzio in aula. «Cerco di farmi un’idea autonomamente sul conflitto ma non è facile» dice a bassa voce. Il dibattito riparte. La parola «genocidio» ricorre più volte - almeno cinque, riascoltando la registrazione a posteriori - e a un certo punto il professore interviene a precisare i termini. A Gaza si può parlare di crimini di guerra ma il genocidio in senso giuridico - «sterminio deliberato e pianificato di un popolo» - è un’altra cosa. È ora di iniziare la lezione.

Spegniamo il registratore. «La storia ha il dovere di confrontarsi con il presente» ragiona il docente mentre cancella i segni del gesso dalla lavagna. Sarà sostituita con un tecnologico schermo digitale dopo la ristrutturazione: anche questa è storia. «Qui però non dobbiamo inseguire l’attualità, se no finiremmo a fare cronaca». Il «talk-show» è finito e sui banchi - finalmente - gli studenti aprono i libri.

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