Diario palestinese

La guerra tra le vigne, dove si muore per tre franchi

Le storie di Bilal, Mohammad e Yamen – Mentre in Cisgiordania continuano gli attacchi da parte di coloni ed esercito israeliano
Un incendio appiccato dai coloni israeliani in un campo a Betlemme, in Cisgiordania.
Luca Foschi
23.11.2025 12:46

Datteri e caffè, i doni dell’ospitalità offerti dai bambini anche quando l’ingiustizia incombe sulla comunità, anche quando è l’infanzia stessa a essere uccisa. Nella grande sala municipale di Beit Ummar, piccolo centro a 40 chilometri da Ramallah, gli uomini siedono in silenzio. I corpi di Mohammad Ayyash e Bilal Sabarnah non sono ancora stati restituiti dall’esercito israeliano. Sono trascorsi tre giorni da quando i due inseparabili amici quindicenni, usciti da scuola, hanno preso le anguste strade del villaggio per scendere fino ai campi. L’inverno è arrivato in Palestina, a Gaza come in Cisgiordania.

Pioviggina, fa freddo, sono le 4 del pomeriggio ma è già imbrunire. Gli agricoltori, la gente nelle case aggrappate al dorso della collina sentono gli spari. Restano solo le foto, scattate dai soldati dell’Idf. Il corpo di Bilal è supino. Un braccio disteso, l’altro sul petto, la testa coperta dal passamontagna adagiata sui sassi. A mezzo metro la piccola bottiglia di vetro. Una plastica nera ne avvolge il collo. Dentro, un liquido lattiginoso. Mohammad è riverso sul limitare della vigna, un piede poggiato sul tubo d’irrigazione, una cuffia e il cappuccio della felpa sul volto cianotico.

L’ordine di uccidere

Il comunicato dell’esercito, diffuso poche ore dopo, descrive l’accaduto come «l’eliminazione di due terroristi che si preparavano a compiere un attacco nell’insediamento di Karmei Zur», la colonia illegale che sui campi si affaccia. È il sindaco Nasri Sabarna, presente nella grande sala dell’attesa e del cordoglio, a dare la verità di Beit Ummar: «Siamo una comunità povera, contadina, Mohammad e Bilal erano nella vigna per guadagnare dieci shekel, l’equivalente di tre franchi. A ucciderli non è stato l’esercito, ma la guardia della colonia. Ha fermato la macchina durante la ronda intorno a Karmei Zur, e fatto fuoco. I ragazzi erano a 200 metri. Poi hanno collocato la molotov per giustificarsi. Non sarebbe la prima volta. C’erano altri agricoltori che lavoravano, nei campi vicini. Ma voglio accettare per un attimo che Bilal e Mohammad avessero cattive intenzioni. Cosa potevano fare a 200 metri dalle reti che proteggono la colonia? In passato li avrebbero arrestati, o mirato alle gambe. Ma ora, con i ministri Ben Gvir e Smotrich al potere, l’ordine è quello di uccidere».

Attacchi in aumento

Nella sala silenziosa entra il padre di Bilal, Baran, i grandi occhi celesti cerchiati di rosso, le spesse mani ruvide del contadino. I servizi segreti lo hanno appena rilasciato, era stato prelevato all’alba per un interrogatorio: «Mi hanno minacciato. Chiunque si avvicini alla rete, uomo, donna, vecchio, dovesse anche avere un anno, loro lo uccideranno», riesce a dire. Il padre di Mohammad Ayyash è morto sei anni fa. «Mohammad aveva paura dei coloni e dell’esercito. Era un bravo bambino. Voleva diventare in fretta uomo per aiutare me e le sorelle», racconta la madre Huda nel salotto appena abbandonato dall’ennesima visita di cordoglio, accolta con datteri e caffè. Le rimangono tre giovani figlie e due gemelli di cinque anni, Ali e Sara. Secondo l’Onu il numero di attacchi portati da coloni ed esercito in Cisgiordania nel 2025 è il più alto dal 2006. L’intensificarsi di incendi, furti, aggressioni, ferimenti, omicidi da parte della «gioventù delle colline», gli ebrei del sionismo messianico arroccato negli insediamenti illegali, ha costretto nei giorni scorsi perfino il presidente israeliano Herzog, il premier Netanyahu, il capo di Stato maggiore Zamir e il segretario di Stato americano Rubio a esprimersi con preoccupazione e fermezza. Le squadracce delle colline hanno cominciato a resistere a polizia ed esercito, che negli ultimi due anni, insieme al sistema giudiziario, hanno garantito loro una quasi totale immunità. Strumento informale della conquista, le bande sostenute dall’esecutivo sono mutate in un’anarchica sfida allo Stato Israeliano.

Ancora una molotov

Datteri e caffè, dieci giorni prima, anche a casa di Yamen Hamed, a Silwad, come Beit Ummar assediato da coloni ed esercito. I soldati dell’Idf hanno collocato una bandiera israeliana alla periferia del villaggio, i ragazzi si sono avventurati per sfilarla dalla terra. Tre colpi di fucile al crepuscolo, il divieto per l’ambulanza di intervenire, e durante l’agonia i calci che gli hanno spezzato il collo. Il corpo denudato. Aveva 15 anni. «Niente prova che Yamen fosse armato. Potevano sparare alle gambe, arrestarlo. Lo hanno ammazzato, e umiliato», dice sconvolto il padre Iusef. Terrorista in possesso di molotov, ha dichiarato l’esercito israeliano.

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