Il personaggio

«La mia doppietta a Wembley e quei ricordi in Ticino»

José Altafini si racconta 60 anni dopo, dal Milan di Nereo Rocco all'ultima partita con il Chiasso
L'8 agosto 1976 Altafini esordisce con il Chiasso
Alberto Cerruti
28.05.2023 16:30

Sono passati sessant’anni dal 22 maggio 1963, ma chi allora tifava Milan non ha mai dimenticato quella giornata. In primo luogo perché la finale con il Benfica si disputò di pomeriggio e siccome la Rai decise di non trasmetterla, mandando in onda soltanto la radiocronaca affidata al mitico Nicolò Carosio, i più fortunati tra cui il diciottenne Adriano Galliani furono costretti a raggiungere Chiasso per vedere la partita in diretta sulla tv della Svizzera italiana. E poi, o meglio soprattutto, quella fu una giornata storica perché ci fu il primo successo di una squadra italiana in Coppa dei Campioni. Merito della doppietta di José Altafini, che si tuffa tra i ricordi con il suo travolgente entusiasmo senza età, perché a quasi 85 anni - è il caso di dirlo - ha fatto un patto con il Diavolo, non soltanto rossonero.

Prima di riparlare di quell’impresa, ci spiega perché all’arrivo in Italia la chiamavano «Mazola»?
«Avevo vent’anni e giocavo nel Palmeiras quando un dirigente, guardando la foto del Grande Torino appesa nella sede del club, disse che assomigliavo a Valentino Mazzola: avevo i capelli biondi e la faccia un po’ quadrata come la sua. Siccome in Brasile non si pronuncia la doppia «zeta» per tutti sono diventato subito Mazola».

Le piaceva essere chiamato così?
«Per me è stato un onore e ricordo che quando sono arrivato a Milano mi hanno presentato suo figlio, Sandro, e a lui tremavano le gambe per l’emozione nel ricordo del papà. Devo dire, però, che quel soprannome mi ha anche creato dei problemi, perché in Italia sono diventato Altafini e da quel momento in Brasile, dove mi conoscevano come Mazola , nessuno si è ricordato più di me, anche se avevo già partecipato al Mondiale del 1958 con Pelé».

A proposito, meglio Pelé o Maradona?
«Tutta la vita Pelé, il numero uno al mondo».

Passando da Pelé a Rivera, poi è diventato famoso nel Milan. Che effetto le fa riparlare della finale di Wembley dopo oltre mezzo secolo?
«Da un lato sono dispiaciuto, perché nessuno in Italia me l’ha ricordato nei giorni scorsi, ma dall’altro sono contento che me lo chiediate voi dalla Svizzera, perché proprio lì ho chiuso la mia lunga carriera».

Qual è il primo ricordo della finale?
«La vigilia. Vicino a Milanello, dove avevamo fatto l’ultimo allenamento, c’era un maneggio e il proprietario, tifoso milanista, volle regalarmi come portafortuna un ferro di cavallo in alluminio del famoso cavallo Ribot».

Ricordo che appena arrivati a Londra andammo a vedere una partita del Fulham, durante la quale il loro centromediano si infortunò e siccome non c’erano le sostituzioni lo fecero giocare come centravanti

Con quale spirito si avvicinò alla partita?
«Sicuramente senza la tensione che c’è oggi prima di una finale. Ricordo che appena arrivati a Londra andammo a vedere una partita del Fulham, durante la quale il loro centromediano si infortunò e siccome non c’erano le sostituzioni lo fecero giocare come centravanti. A quel punto i miei compagni incominciarono a prendermi in giro, dicendo che il centravanti lo poteva fare chiunque, persino uno infortunato».

E così lei si è caricato ancora di più…
«Per la verità avevo già segnato 12 gol nelle 8 partite precedenti, eguagliando il record che apparteneva al grande Puskas. Sapevamo tutti, però, che il Benfica era favorito perché era campione in carica e in pratica era la nazionale portoghese con grandi giocatori, non solo Eusébio».

Eusébio che portò in vantaggio il Benfica, all’intervallo pensavate ancora di farcela?
«Rocco ci credeva e ci credevamo anche noi, forse perché eravamo incoscienti. Cesare Maldini, il nostro capitano, decise di cambiare la marcatura su Eusébio, perché le panchine erano lontane e Rocco non riusciva a sentire. Guarda caso alla prima occasione scaricai un destro rasoterra da fuori area e fu il gol dell’1-1. Sul secondo, invece, Rivera rubò un pallone che mi passò subito e io feci una volata segnando il 2-1. Nella mia carriera ho fatto tanti gol e tra l’altro sono stato l’unico a segnarne quattro in una volta sola contro l’Inter, la Juventus e il Santos, ma i due di Wembley sono stati sicuramente i più importanti, anche perché ho chiuso con 14 reti in 9 partite, una media che nemmeno Cristiano Ronaldo ha più mantenuto in seguito».

Se Pelé è stato il numero uno al mondo, Rivera lo è stato in Italia?
«Sicuramente, ma al suo livello metto anche Baggio: dove lui calpestava l’erba nascevano i fiori».

Tornando a Wembley, vi eravate resi conto dell’importanza di quel successo?
«Poco, anche se negli spogliatoi eravamo tutti felici. Io, però, non riuscii a festeggiare. Rimanemmo a dormire a Londra, ma non chiusi occhio per il dolore (un colpo al polpaccio)».

Non potrò mai dimenticare l’abbraccio di Rocco che mi disse: «Jòse, con l’accento sulla «o» e non sulla «e», questo è il giorno più bello della mia vita

Dopo quella partita Rocco lasciò il Milan.
«Non potrò mai dimenticare l’abbraccio di Rocco che mi disse: «Jòse, con l’accento sulla «o» e non sulla «e», questo è il giorno più bello della mia vita». Lui non andava d’accordo con Viani e andò al Torino, mentre io dopo due anni passai al Napoli, dove mi trovai benissimo e nel 1968 arrivammo per la prima volta al secondo posto».

Poi, però, quando tornò al Napoli con la maglia della Juve fu accolto con lo striscione «core ‘ngrato»…
«Un’ingiustizia: non volevo andare via da Napoli. È stata la società che mi ha lasciato libero. C’era la possibilità di andare alla Juventus e l’ho colta al volo perché ho potuto tornare a giocare in Coppa dei Campioni dopo sette anni, vincendo altri due scudetti, partendo dalla panchina».

Come mai ha finito la carriera in Svizzera?
«Nell’ultimo campionato alla Juventus giocai si e no 90 minuti in tutto. Nell’estate del 1976 avevo 37 anni, allora tanti, e quando ricevetti l’offerta del presidente del Chiasso, Ernesto Parli e del suo «vice» Chicco Frigerio, dissi subito di sì. Mi allenavo a Torino e al sabato raggiungevo la squadra. Ero felice perché mi trattavano benissimo e mi sembrava di essere tornato alle origini. Purtroppo sfiorammo soltanto la promozione. Avevamo due punti meno dell’Étoile Carouge e nel confronto diretto stavamo vincendo 1-0 con un mio gol. Poi l’arbitro ci fischiò un rigore contro e un mio compagno gli diede un pugno. Così perdemmo la partita a tavolino e la promozione. Sono rimasto tre anni a Chiasso e in pratica ho chiuso lì, anche se poi ho accettato l’invito di un amico per dare una mano, anzi un piede, al Mendrisio, perché avevo già più di quarant’anni. Sempre meno, comunque, di quelli che sono passati da quel pomeriggio di Wembley, che rimane il ricordo più bello della mia carriera».

In questo articolo: