La nuova diplomazia di 007 e affaristi

C’era una volta la diplomazia classica. Incontri ufficiali, ambasciatori, delegazioni e qualche inviato speciale. Oggi non è scomparsa ma è stata affiancata e, sempre più spesso, superata da altri due canali privilegiati. Più discreti, meno vincolati da regole, alla ricerca di brecce in crisi estenuanti.
Un breve passo indietro, quando negli anni ’70 divenne celebre l’azione di Henry Kissinger, ribattezzato non a caso Super K. Il segretario di Stato americano, uomo cinico ma anche di esperienza, fu protagonista di una spola incessante tra le capitali coinvolte nei conflitti o in relazione complesse. Il Vietnam, il «solito» Medio Oriente, l’URSS, la Cina. Quel filo si è poi dipanato successivamente seguendo strade tradizionali, consolidate dopo il crollo del Muro. C’è stata però una parentesi interessante, con le intese di Oslo sul nodo Israele-Palestina: in questo caso i protagonisti furono anche dei facilitatori, non necessariamente vincolati al protocollo.
Un momento storico importante, la speranza di una nuova alba soffocato poi da ondate di violenza, sia pure alternate a periodi di calma. Il fuoco, tuttavia, è rimasto acceso sotto la cenere per esplodere con l’assalto di Hamas a Israele del 7 ottobre. Deflagrazione appaiata a quella in Ucraina, invasa dall’Armata russa. Davanti al doppio rogo sono cambiati i «pompieri». Le vie consuete per disinnescare la mina si sono rivelate insufficienti. Non per incapacità o mancanza di volontà, bensì per la propensione per i contendenti ad usare la forza senza limiti, incuranti delle conseguenze nel breve e lungo termine. Ed ecco che ci si è affidati ai capi delle intelligence, incaricati di esplorare soluzioni. William Burns, diplomatico di lungo corso alla testa della Cia durante il mandato di Joe Biden, è stato mandato a Mosca nel tentativo di evitare il peggio alla vigilia dell’attacco. Una missione nel quale disse chiaramente al Cremlino: sappiamo cosa volete fare, fermatevi. Non è andata bene. Lo stesso Burns e i suoi collaboratori si sono poi dedicati alla guerra israelo-palestinese avendo come interlocutori i responsabili dei servizi segreti egiziani, turchi, Mossad, Shin Bet, qatarini. Si è pensato che fosse più agevole un dialogo riservato tra 007, figure che badano al sodo, in qualche caso possono mentire o simulare, ma che non sono costretti a rilasciare dichiarazioni, a rispondere a domande dei media, a enunciare in pubblico ostacoli da superare. La ricetta era (e resta) composta da discrezione e pragmatismo.
Il loro lavoro ha seminato qualcosa, però non è bastato. E siamo arrivati, con Donald Trump, alla «terza diplomazia», quella degli affari. Il presidente ha passato gli ordini a elementi di sua fiducia. Steve Witkoff e il genero Jared Kushner, legati da vincoli profondi agli investimenti, ai contratti, alla possibilità di lanciare nuove iniziative economiche. L’idea della Riviera di Gaza è un eccesso trumpiano ma anche il simbolo di quali siano le mete.
L’iniziativa ha dato dei frutti perché, oltre ad avere carta bianca, si sono seduti ad un tavolo dove alcuni dei mediatori uniscono il desiderio di fermare il massacro alle prospettive di sviluppo e a sbocchi commerciali. Sono alleati e partner, ovvero possibili soci di iniziative. La pace, oltre ad essere un desiderio condiviso, apre possibilità di sviluppo. Lo stesso Donald Trump lo ha sottolineato in occasione del summit a Sharm el Sheikh. E allora, forzando un po’, possiamo dire che l’evidente conflitto di interessi - campi da golf, jumbo in regalo, complessi alberghieri - ha creato una reciproca comprensione. Naturalmente non è stato solo questo. Hanno usato minacce, pressioni e c’è stato il lavoro dei diplomatici di professione come degli agenti segreti. Ha pesato lo stile irrituale di Trump che messo in riga Bibi Netanyahu e costretto Hamas ad accettare le condizioni. Tutto ciò ha portato allo scambio ostaggi-prigionieri, un risultato di grande valore. Da capire se saranno onorati i futuri punti del «contratto» in una regione dove tanti dicono sì ma nella realtà intendono un no.