Il commento

La parola che rompe il silenzio sugli abusi

«Cosa penserà la gente? Che sono stata stupida per dieci anni?»: questi dubbi hanno assillato Gisèle Pelicot prima del processo contro suo marito
©YOAN VALAT
Prisca Dindo
08.12.2024 06:00

Cosa penserà la gente? Che sono stata stupida per dieci anni? Come è possibile farsi stuprare nel sonno per tutto questo tempo senza accorgersene?». Questi dubbi hanno assillato Gisèle Pelicot nei due anni precedenti al processo contro suo marito Dominique Pelicot, accusato di averla narcotizzata per soddisfare il bassoventre di decine di sconosciuti agganciati online. 

Dominique Pelicot ora rischia vent’anni di galera. Il verdetto per lui e gli altri uomini alla sbarra è atteso il 20 dicembre. Nel 2022 la settantaduenne francese aveva già scoperto ciò che aveva dovuto subire dal marito, ma ancora non aveva visto i dettagli atroci emersi dai video girati durante gli stupri.

Tuttavia ha deciso di parlare, di non farsi zittire dalla vergogna. Gisèle Pelicot attribuiva i frequenti vuoti di memoria che l’assalivano al mattino a una possibile malattia, a una forma tumorale oppure all’Alzheimer. Invece, era sprofondata negli inferi. Mentre pensava di esser sposata con l’uomo migliore del mondo, lui la drogava sciogliendo ansiolitici e sonniferi nel bicchiere di vino serale, nella colazione mattutina o nel sorbetto che le portava a metà giornata. Persi i sensi, iniziavano gli stupri, anche durante la notte di Capodanno, nel giorno di san Valentino, oppure nel letto delle loro figlie.

«In quelle immagini c’era un livello di depravazione e disumanità che io non avevo mai visto» ha ricordato in una lunga intervista accordata al «The Guardian» uno dei suoi due legali, l’avvocato Stéphane Babonneau, che visionò per primo le atrocità dei video: «si tratta del caso più orribile della mia carriera» ha esclamato.

Gisèle Pelicot appariva in ogni tipo di posa. Eppure, malgrado le oscenità con cui era rappresentata, ha deciso di rendere pubblico lo scempio, portando le immagini in aula. Non doveva più essere lei a provare vergogna, bensì gli uomini che l’avevano sedata, stuprata e filmata.

«Quel che è successo a me non deve più succedere a nessun’altra donna; per questo tutti devono conoscere ogni dettaglio di questa storia schifosa, anche i più orribili» ha detto Gisèle. Parole condivise dal suo avvocato, secondo il quale «dopo questo processo una donna che dovesse svegliarsi senza ricordare più nulla, e magari con problemi ginecologici, non potrà non pensare alla storia di Gisèle Pelicot». Se la settantaduenne avesse saputo prima che queste cose potevano succedere, se avesse sentito parlare di un caso come il suo, forse sarebbe stata in grado di fermare l’orrore che stava vivendo a sua insaputa.

Anche per Gino Cecchettin il papà di Giulia, la giovane studentessa trucidata con settantacinque coltellate dal suo fidanzato Filippo Turetta e per questo condannato all’ergastolo, la parola ha un’importanza assoluta. «Io credo che inasprire le pene - ha dichiarato all’Agenzia Sir - può servire come metodo per mostrare che a un reato è sempre associata una pena. Ma nel momento in cui Filippo stava commettendo il femminicidio di mia figlia Giulia non pensava certo alla pena. Noi dovremmo mettere in condizione chi può arrivare all’omicidio di non commetterlo e di fare retromarcia quando ne ha ancora la possibilità». Fare prevenzione, spiegare. E in caso di reato, denunciare, farsi avanti, parlare. Il progetto per la lotta alla violenza di genere voluto da Gino Cecchettin basato sull’educazione nelle scuole e sul sostegno delle vittime ha già iniziato a raccogliere i suoi frutti. Anche in Francia i gruppi femministi affermano che il processo contro Dominique Pelicot e i violentatori di sua moglie sta già incoraggiando molte altre vittime di abusi sessuali a farsi avanti. Tuttavia non basta. Secondo l’Institute of Public Policies, si stima che l’ottantasei per cento delle denunce di abusi sessuali e il novantaquattro per cento degli stupri non arrivino neppure in tribunale.

In troppi casi vige ancora la scusante, se non l’omertà. Il silenzio e la copertura dei famigliari, degli amici e talvolta delle Istituzioni che troppo spesso banalizzano gli assalti fisici o morali contro le donne.

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