La terra custodisce la memoria storica, ora ritrovi le forze

Giesv Maria † 1594 qvi fv bela campagnia. L’iscrizione si legge proprio su un masso di Fontana, la frazione o terra più martoriata dalla recente alluvione che ha infuriato con una violenza mai vista sulla Valmaggia, in particolare sulla Val Bavona e sulla Valle di Campo. Il masso sta dietro il grotto ai Balói (cioè appunto «ai Massi»), grotto che ora è davanti a un’altra immane colata di sassi, larga più di un centinaio di metri, come testimonia chi è già penetrato in valle sin lì e come le immagini di cui disponiamo confermano con troppa evidenza. L’iscrizione è nota anche perché ne parla Il fondo del sacco: «Nel tempo di un’ave cadeva la frana e la piena rompeva gli argini spazzava i coltivi portava via le stalle intere con dentro il fieno e le vacche. Io ti dico che oggi il fiume non fa più disastri perché quelli che poteva li ha già fatti tutti. Sono soltanto disgrazie le poche notizie di cui ci hanno lasciato memoria i nostri vecchi, come a Fontana, dove su un masso di frana trovi scolpito un Gesummaria da non sapere se sia preghiera o imprecazione, e che lí ci fu una bella campagna; quella volta ai nostri vecchi non rimase il fiato di dire altro». Quando Plinio Martini immagina che Gori, il protagonista del romanzo, parli in questi termini, grosso modo nei nostri anni Sessanta, da un certo tempo dunque le acque non facevano più disastri. Dopo altri sessanta anni sappiamo che altre alluvioni si sono succedute con spaventosa frequenza, sino a questa di eccezionale ampiezza e violenza. Della frana a Fontana nel 1594, precisa il fratello di Plinio, Luigi, nel ricco volume Terre di Val Bavona (Dadò, 2015), non v’è, per quell’anno e per gli immediati precedenti, nessun’altra testimonianza scritta, quasi non meritasse di essere posta agli atti. Il che mi ricorda anche l’eccezionale valore testimoniale di quell’iscrizione, proprio in quanto lingua italiana emergente in quel luogo alla fine del Cinquecento: la testimoninza della conquista di una nuova dimensione comunicativa, come sottolinea Sandro Bianconi nel suo Italiano lingua popolare (Accademia della Crusca, 2013), libro la cui copertina riproduce l’iscrizione.
Questa volta l’alluvione avrà portato via anche un po’ di fieno o qualche vacca di cui non si parla, ma anzitutto persone, case, stalle per lo più diventate case e buona parte della sempre scarsa campagna rimanente. Già Federico Balli nel 1885, in un suo libretto intitolato Valle Bavona. Impressioni e schizzi dal vero (ripreso in Federico Balli e Giuseppe Martini, Valle Bavona il passato che rivive, Dadò, 1996), riportava l’iscrizione di Fontana e, procedendo tra quei massi, concludeva, con enfasi senz’altro d’epoca, ma esprimente un sentire che in qualche modo oggi possiamo fare nostro: «Siete squallide, siete orride, o balze della mia diletta Bavona; ma possa la mia voce esservi di lieto presagio: voi non subirete l’onta dell’intonaco! E quali noi vi vedemmo nella nostra giovinezza, fieri nella vostra nudità, vi mostrerete alle generazioni che dopo di noi verranno!» Un curioso concorrere di circostanze di per sé negative, anzitutto il lungo isolamento stradale della valle, ha messo a lungo un freno a molte speculazioni, per cui sulle balze della Bavona rimangono gli stessi monumenti di rustica architettura che vedeva Federico Balli e sui quali ha meditato Plinio Martini: trascurabili le aggiunte posticce, scarso persino l’intonaco, ben sorvegliata oggi ogni innovazione abitativa. Uno dei più eleganti monumenti di questa architettura, il ponte del Chiàll che, proprio ai piedi della Fontana, scavalcava il fiume Bavona con due arcate, è scomparso sotto questi altri nuovi enormi massi di funebre biancore. Dove passerà l’acqua del fiume? mi chiedo e mi propongo, come tanti altri, di andare a vedere alla prima occasione. Ma la gente di Val Bavona, dice mio fratello Lorenzo che in questa zona ha lavorato da architetto, ricostruirà anche il ponte del Chiàll, perché così fa da sempre, così come fanno le genti dell’arco alpino. Non serve altro «lieto presagio», da tradurre in fervido augurio a che la valle trovi il coraggio e le forze di riassestarsi in nuovi modi, memori dei modi antichi.