Le «figlie del mare» e la forza di immergersi in tempi bui

Quando i loro uomini lasciarono l’isola per imbracciare le armi contro i nemici, non ebbero più scampo. Dovevano trovare al più presto una soluzione per salvare vecchi e bambini ridotti alla fame dagli invasori giapponesi.
Così, in una calda estate del 1875, le donne dell’isola di Jeju si ricordarono le gesta eroiche di alcune delle loro antenate pescatrici: le «Haenyeo», che in coreano significa «figlie del mare». Come loro, si tuffarono senza ossigeno negli abissi dello stretto di Corea in cerca di cibo. Sapevano che avrebbero rischiato la vita senza ossigeno, ma la salvezza dei loro villaggi dipendeva da quanto avrebbero trovato laggiù, in fondo al mare. Nuotando veloci e tenendo a lungo il respiro, fecero man bassa delle ricchezze nascoste tra i fondali.
Riemersero stremate dalle acque cristalline con le reti colme di crostacei, polpi e molluschi, che distribuirono a vecchi e bambini. Il loro grande coraggio aveva messo in salvo il villaggio. Non si sa se le origini delle «Haenyeo» siano proprio queste: quel che è certo è che la tradizione è arrivata fino ai giorni nostri. «Mia madre conosceva tutti i segreti dellOceano; si immergeva anche quando il mare era agitato, senza mostrare paura alcuna;per me diventare una «Haenyo» come lei è stato naturale», racconta orgogliosa Young-Im, «Haenyeo» da quando aveva diciasette anni.
Ora di anni ne ha settantatre, «e non sono neppure la più vecchia a raccogliere ancora molluschi nel mare» annota sorridente indicando le sue colleghe ultra ottantenni. Francesco Santino, il giornalista titolare del canale youtube Latiumani che le ha incontrate di recente, gli ha raccontato la sua storia. Youn-Im gli ha confidato come fino a pochi anni fa si immergeva insieme alle altre donne pescatrici senza equipaggiamento alcuno. Le mute di gomma fecero la loro comparsa sull’isola coreana soltanto negli anni ’70. «Prima di allora affrontavamo le acque gelide del mare con i vestiti di tutti i giorni: per noi ogni immersione era una sfida, resa ancora più pericolosa dal freddo e dalle condizioni avverse. Per noi l’Oceano non è mai stato un nemico. Certo, era un modo di vivere duro, che rifletteva però la nostra forza e determinazione nello svolgere il nostro lavoro». Ancora oggi le «Haenyeo» rimangono in acqua dalle quattro alle cinque ore al giorno e possono raggiungere i venti metri di profondità restando in apnea per più di due minuti. Non hanno bisogno di bombole d’ossigeno: «con noi c’è Jamsugut, la Dea del Mare, è lei che ci protegge».
La loro attività è divenuta un simbolo di una identità culturale: nel 2016, è entrata a far parte dei patrimoni orali e immateriali dell’umanità UNESCO. Anche la scienza si è interessata a Youn-Im e alle sue colleghe: sembra che nel tempo abbiano sviluppato diversi adattamenti genetici che permettono loro di nuotare a lungo in acque gelide senza andare in ipotermia, e pure il loro cuore si è allenato a rallentare. «Possiamo essere un modello per le donne di tutto il mondo: per la nostra forza, la nostra indipendenza e la capacità di affrontare le sfide con coraggio» racconta Young-Im. Chissà se le tradizioni di queste orgogliose figlie del mare riusciranno a sopravvivere alla modernità.