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L'ultimo uomo dell'era Agnelli

Rancore, frustrazione e tanta rabbia dietro la «cacciata» di Massimiliano Allegri dalla Juventus
Mentre uno striscione chiede la sua giacca, un furente Max Allegri si sfila anche la camicia. © Photo by Fabrizio Corradetti/LaPresse/Sipa USA
Giancarlo Padovan
Giancarlo Padovan
19.05.2024 19:05

Con la cacciata di Massimiliano Allegri, avvenuta venerdì pomeriggio, attraverso un duro comunicato della società, se ne va dalla Juventus l’ultimo degli uomini legati ad Andrea Agnelli. Si completa così, con quasi due anni di ritardo, l’operazione repulisti messa in atto di John Elkann e dal suo management.

Una fama di vincente

In tre anni, Allegri è stato all’altezza della sua fama di vincente solo all’ultimo atto, ovvero nella finale di Coppa Italia, vinta, mercoledì sera, contro l’Atalanta. Prima non ha conquistato nulla, dopo ha perso ogni contegno per rappresentare il peggio di sé stesso: un concentraro di rabbia, rancore e frustrazione. A distanza di quattro giorni da una scenata vergognosa e, per certi aspetti, anche grottesca, partita con una rodomontesca protesta contro l’arbitro in campo (il quarto uomo e il designatore in tribuna) e conclusa con lo scontro quasi fisico con il direttore di Tuttosport, spintonato e minacciato, non è importante capire se Allegri abbia abbandonato ogni freno inibitorio dopo mesi di rospi inghiottiti, ma quanto il suo licenziamento - che potrebbe assumere il connotato della “giusta causa” - è stato un vantaggio per il club.

Posto che, nonostante l’ultimo anno di contratto, l’allenatore avrebbe comunque lasciato il posto a Thiago Motta, attuale tecnico del Bologna, la Juve potrebbe risparmiare di pagargli almeno una parte dell’ingaggio (7milioni e mezzo netti) e, soprattutto, si è attribuita una bella figura agli occhi del mondo. Non è da Juve permettere che il suo primo manager, il responsabile sportivo della prima squadra, si comporti in quella maniera. Meno che mai è accettabile che l’allenatore pretenda, con vistosi gesti delle mani, di allontanare un suo superiore - ovvero il direttore sportivo Cristiano Giuntoli - dalla zona della premiazione.

Il «caso» Giuntoli

È vero che Giuntoli è arrivato dopo la rivoluzione di novembre di due anni fa. È vero che, prima sul mercato estivo e poi in quello invernale, non ha comprato mezzo calciatore decente ad Allegri. È vero - infine, cosa più grave di tutte - che aveva già trovato l’accordo con Motta per sostituire il suo allenatore. Ma non esiste che, nel momento del successo, qualcuno pretenda la scena solo per sé.

La Juve, nel suo comunicato di addio, ha scritto che i comportamenti dell’allenatore non sono stati compatibili con i valori del club. Vero. Tuttavia, solo un anno fa, quando la società, decapitata della dirigenza e sotto inchiesta penale e sportiva, non era esistita, Allegri era assurto a eroe popolare. Compattando la squadra, proteggendola dagli attacchi esterni, stimolandola a dare il massimo anche quando le penalizzazioni - inflitte, ridotte e reinflitte - sconcertavano e demoralizzavano chi andava in campo. Era finito terzo.

Un vantaggio economico

Certo, la Juve di Allegri, in questi tre anni, non ha mai giocato bene e ha vinto solo la Coppa Italia. Tuttavia nessun altro tecnico, con un centrocampo così modesto (Pogba e Fagioli sono stati squalificati quasi subito) e con troppi sopravvalutati altrove, avrebbe saputo far meglio di lui. Ragioni sufficienti per dire che, oltre a garantirsi un finale migliore, Allegri non avrebbe dovuto mai permettere alla Juve di trarre, dalla sua cacciata, un vantaggio economico e di immagine.

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