L'intervista

«Mio padre rischia di morire in carcere»

Jimmy Lai, giornalista ed editore di Hong Kong, è detenuto dal 2020 - Il figlio Sebastien chiede all'Occidente di non voltargli le spalle
Sebastien Lai con una foto del padre (KEYSTONE/Salvatore Di Nolfi)
Francesco Anfossi
16.11.2025 15:30

«Mio padre ha dato tutto per difendere la libertà di Hong Kong, ora rischia di morire in carcere». La voce di Sébastien Lai, 31 anni, è ferma ma velata di dolore. Figlio di Jimmy Lai, imprenditore e giornalista cattolico, fondatore del quotidiano Apple Daily, detenuto con l’accusa di «collusione con forze straniere», è oggi il volto internazionale della campagna per la sua liberazione. A Milano ha ritirato a nome del padre il premio «Fatti per la verità», e dal palco ha lanciato un appello: «Spero che anche l’Italia si unisca a Trump nel chiedere il suo rilascio».

Sebastien, chi è suo padre Jimmy?
«Mio padre è arrivato a Hong Kong oltre sessant’anni fa come bambino rifugiato, in fuga dalla Cina comunista. Ha iniziato lavorando a nove anni trasportando cassette in un magazzino e poi ha costruito da zero un’azienda di abbigliamento che è diventata un marchio internazionale. Dopo la strage di Tiananmen, nel 1989, capì che la libertà non era scontata e che bisognava difenderla. Così è divenuto editore e ha fondato Apple Daily, perché credeva che solo un’informazione vera, senza paura, potesse rendere le persone libere di scegliere».

Poi è arrivata la legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong, che ha cancellato molte libertà. Cosa fece suo padre?
«Tutti gli dissero di andarsene, che avrebbe potuto continuare la sua battaglia per la democrazia dall’estero. Ma lui rispose che se fosse fuggito, avrebbero colpito i suoi giornalisti. È rimasto per coerenza, per difendere ciò in cui credeva. Ora ha 78 anni e da cinque è in cella d’isolamento. Prima dell’arresto soffriva di diabete; oggi la sua salute è molto peggiorata. La cella è senza luce naturale, e con il caldo di Hong Kong diventa un forno. Rischia di morire. Non lo vedo e non gli parlo da cinque anni. Molti parlano di lui come un eroe ma io vorrei solo che fosse libero, perché è mio padre».

Il processo è ancora in corso. Ritiene che stia ricevendo un giusto processo?
«No. È stato arrestato nel 2020, il processo doveva chiudersi nel 2022, ma non è ancora finito. E poi l’accusa non regge: persino il gruppo delle Nazioni Unite sulle detenzioni arbitrarie ha chiesto il suo rilascio immediato».

Donald Trump ha chiesto la liberazione di suo padre. Cosa pensa delle sue parole?
«Sono incredibilmente grato al presidente per le sue parole. Questo è un processo politico, e la pressione internazionale è la nostra unica speranza per evitare che mio padre muoia in carcere. Anche per l’Europa è un’occasione, spendendosi per lui, di mostrare i propri valori di libertà e pace»

A Hong Kong ci sono decine di attivisti in prigione. Teme che vengano dimenticati?
«Sì. Per questo chiedo che Hong Kong liberi tutti i prigionieri politici. Non possiamo ricordarci solo dei volti noti ma di tutti coloro che hanno marciato pacificamente per la libertà nel 2019 e nel 2014, durante la «protesta degli ombrelli».

Sei anni fa milioni di cittadini scendevano in piazza per chiedere la democrazia. Cosa resta di quello spirito?
«Credo che oggi Hong Kong sia governata dalla paura. La legge sulla sicurezza nazionale ha distrutto le libertà che rendevano la città unica. Ma come diceva mio padre: «Non si combatte perché si ha speranza, si combatte e quindi si ha speranza». Ha lottato in modo pacifico, sacrificando tutto per ciò in cui credeva».

Se dovesse spiegare a un giovane europeo chi è Jimmy Lai, quale immagine sceglierebbe?
«Direi che è l’uomo che ha trascorso tutta la vita a cercare Dio e la libertà. Si è convertito al cattolicesimo nel 1997, poco dopo il ritorno di Hong Kong alla Cina. Non era religioso prima, ma sentiva che esisteva una verità più grande. È una persona che amava «scuotere le acque», che voleva vivere una vita significativa, non comoda. Avrebbe potuto piegarsi al Partito Comunista e vivere nel lusso, ma ha scelto di rinunciare a tutto pur di restare fedele ai suoi principi».

La sua religione lo ha aiutato a resistere?
«Moltissimo. Mio padre è convinto che Dio lo abbia sempre guidato. Da imprenditore, criticare il governo cinese non aveva alcun senso economico. Come molti cattolici, vive la sofferenza come parte del suo cammino di offerta. È la fede che lo tiene in vita».

Suo padre ha fondato due giornali anche a Taiwan, divenuti ben presto leader nel Paese. Cosa pensa delle tensioni con la Cina?
«Non sono un esperto di geopolitica, ma credo che i taiwanesi abbiano imparato guardando Hong Kong. Le elezioni recenti hanno mostrato un crescente sostegno ai partiti più indipendentisti, proprio perché temono di perdere la libertà. Nessuno vuole la guerra, ma la Cina deve capire che l’esempio di Hong Kong ha spaventato molti».

Anche altri membri della sua famiglia sono stati arrestati.
«Sì, i miei fratelli sono stati fermati, poi rilasciati. Non possono parlare pubblicamente. Io stesso non comunico con loro per non metterli in pericolo. Ma considero un privilegio poter difende re mio padre. Certo, vorrei solo averlo a casa, ma sono incredibilmente orgoglioso di lui».

Che cosa gli direbbe, se potesse guardarlo negli occhi?
«Vorrei solo dirgli che lo amo, che sono fiero di lui e che non smetterò mai di lottare per vederlo libero. Molti lo vedono come un eroe, ma per me è semplicemente mio padre. Vorrei averlo con me a Natale, poterlo abbracciare. Non so quanto tempo ci resti, ma la sua storia continuerà a ispirare chiunque creda nella libertà».

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