«Niente più bombe, ma la morte rimane»

«Forse, finalmente, le bombe non ci pioveranno più addosso. Ma è difficile per qualsiasi politico al mondo comprendere la portata della tragedia umanitaria che si sta consumando qui a Gaza. Anche coloro che hanno in mano soluzioni politiche e le promuovono avranno bisogno di anni per attuarle, mentre noi, il popolo di Gaza, avremo bisogno di un lunghissimo periodo di riabilitazione. Quando lasceremo le tende? Quando tornerà il sistema scolastico? Quando i nostri figli torneranno a scuola? Quando tornerà il sistema giudiziario? Quando avremo una vita dignitosa?». Sono trascorse poche ore dal cauto, tattico «sì» di Hamas al piano di pace in 20 punti del presidente americano Trump, ma nei messaggi di Sara il dubbio e l’angoscia per il futuro prevalgono ancora sull’entusiasmo.
L’idea costante della morte
La fine dell’idea costante della morte offre un breve giubilo, poi mostra forse con più perfidia il disastro intorno, il grigio deserto dei sopravvissuti. Sara Ruhia ha 37 anni, e fino a poche settimane fa lavorava a Gaza City per una Ong che si occupa di diritti umani. La sua casa distrutta, viveva con la famiglia nel campo profughi di el-Karameh. Poi l’operazione «Carri di Gedeone2» ha cominciato a stringere la sua morsa sulla capitale della Striscia, insieme alla carestia. Dal cielo sono piovuti gli ordini di evacuazione, i bombardamenti sono andati intensificandosi, gli abitanti hanno cercato rifugio nei quartieri centrali e poi in quelli occidentali, sul mare. Da qui, lungo la strada litoranea al-Rashid, congestionata da vecchi catorci carichi di masserizie, la moltitudine si è spostata a sud, in quelle che l’esercito israeliano considera «zone sicure». Con loro, almeno 400.000 su un milione secondo le ultime stime, c’erano anche Sara e la sua famiglia. Gli ultimi denari sono stati spesi per il trasporto e l’affitto del pezzo di terra a Deir el-Balah, nel settore centrale dell’enclave, dove hanno piantato per l’ennesima volta la loro tenda. Il sollievo per la distanza dei boati è subito sfumato nella rinnovata consapevolezza della miseria quotidiana: «Guardo le persone intorno a me e le altre tende, circondate da polvere, sporcizia, rumore, immondizia, fumo dei fuochi e gas di scarico dei veicoli: una scena che si può vedere solo qui, in ciò che resta di Gaza. Migliaia di persone ammassate le une sulle altre, che vivono in spazi angusti e conducono una vita dura e primitiva: volti pallidi, corpi fragili, vestiti e scarpe strappati, bambini scalzi e seminudi, donne che cucinano all’aperto il poco cibo che hanno, e persone che fanno i propri bisogni in strutture sanitarie pubbliche piene di malattie. Non c’è cibo, denaro, acqua da bere e per lavarsi. La morte è più gentile di questa vita», sentenzia tragicamente Sara.
Sperando nel negoziato
L’insostenibile peso dell’esistenza di oltre due milioni di persone, che a stragrande maggioranza chiedevano la fine dei bombardamenti, a qualsiasi costo, è stato uno degli elementi principali nelle silenziose considerazioni che Hamas e gli altri gruppi resistenti hanno fatto nei giorni scorsi intorno alla proposta di pace prodotta dal presidente americano Trump. Il «sì» di venerdì notte apre la strada alla liberazione dei 48 ostaggi, alla cessazione dei bombardamenti, prende tempo e innesca il negoziato sui punti più difficili: disarmo, completo ritiro dell’esercito israeliano dalla Striscia, la presenza palestinese nel complesso e ambiguo sistema di amministrazione elaborato da Tony Blair, e approvato da Netanyahu, ma anche da gran parte della comunità internazionale, compresi molti Paesi arabi e musulmani.
Un sopito sentimento alternativo
Improvvisamente la nobile avventura della Flottiglia, gli scioperi e le manifestazioni che hanno rivitalizzato nelle masse occidentali un sopito sentimento alternativo al reale politico, sia domestico che internazionale, cambia colore e significato. Saprà l’energia data dall’indignazione per il massacro di Gaza mantenersi, persistere?
L’apocalisse dell’enclave palestinese è figlia della storia, di un Novecento malignamente filtrato e rovesciatosi nel nuovo secolo, incubi che hanno beneficiato della pavida, passiva subalternità di popoli e governi. Se il piano di pace avrà effettivamente corso la Palestina avrà più che mai bisogno dello sdegno morale, dell’insistente volontà di cambiamento delle moltitudini globali.
Il nodo della Cisgiordania
A Gaza, simbolo devastato di un sistema geopolitico in pericolosa deriva, si gioca anche il loro futuro. Non è un caso che la Cisgiordania nel piano americano appaia e scompaia fra le nebbie di un imprecisato futuro: «È un palese tentativo di impedire la nascita di qualsiasi entità statuale palestinese, un semplice accordo fra Trump e Netanyahu: dammi la tregua a Gaza, fammi ricevere il Nobel per la pace, e potrai fare ciò che vuoi in Cisgiordania», sintetizza Yusef Ayman, professore di Scienze politiche all’Arab American University di Ramallah. Spentosi forse il frastuono delle bombe, comincerà un’altra battaglia campale, quella silenziosa per salvare ciò che resta della Palestina.