«Non volevo fare l'ingegnere, e a un certo punto ho rischiato grosso»

Fare l’ingegnere, o meglio fare soltanto l’ingegnere, non gli è mai piaciuto. Eppure per quarant’anni, anzi qualcosa di più, Olimpio Pini ha svolto proprio la professione di ingegnere, dopo essersi laureato nel 1980 al Politecnico di Zurigo e aver affinato gli studi in quello di Losanna, alla Hsg di San Gallo, con tappa finale del percorso in America, all’università del Texas. «All’inizio, quando ero studente, ero un ribelle, come è giusto che sia quando si è giovani. E di fare solo l’ingegnere come mio padre che ha aperto la sua ditta negli anni ’50 non mi interessava. Così ho continuato a fare sport, politica e partecipare alle attività dell’esercito. Questi tre settori sono stati sempre la mia passione, tanto è vero che li ho portati poi dentro l’impresa, il Gruppo Pini».
I valori nella vita professionale
Una impresa che oggi è diventata una multinazionale che realizza grandi opere, dalle gallerie ai ponti, e lavora praticamente in tutto il mondo. «Ma quando abbiamo iniziato - racconta Olimpio Pini - non era così. Ed è quello che ho trasmesso e vorrei trasmettere ancora ai giovani: mai mollare, nella vita e nella professione bisogna saper tener duro, credere in quello che si fa, essere tenaci». Pini questa lezione l’ha imparata sulla propria pelle. «Raccontavo di mio padre Luigi che era innamorato dei cantieri, seguiva i dettagli delle armature, restava affascinato dai progetti. Ma - aggiunge - non ha mai fatto o emesso una fattura. Così quando ho iniziato negli anni Ottanta a collaborare con lui ho fatto io questo lavoro. Ma alla fine la collaborazione non è andata bene, avevamo idee diverse, e così ho fondato, assieme al mio collega Daniele Stocker, una mia impresa e in seguito ho ricomprato da mio padre la Pini quando lui aveva ormai 75 anni. E sin da subito - qui rientrano le mie passioni - ho cercato di affiancare al lavoro di progettazione, di cantiere e di realizzazione di un’opera, altre attività che non rientravano propriamente in quelle di uno studio di ingegneria. Intanto ho cominciato a comunicare, a fare marketing, a formare il personale creando una squadra affiatata, affiancando i giovani e trasmettendogli come un coach, un allenatore, valori, segreti e regole, oltre un pizzico di sana ambizione, tanto è vero che la nostra ditta non poteva essere incasellata in quelle tipiche, tradizionali. Ho cercato, insomma, di innovare».
Le difficoltà, sull’orlo del fallimento
Ma non tutto è andato liscio. «Ricordo - rileva Pini - che dal 1995 al 1998 stavo fallendo. Non girava nulla. A quel punto ti assalgono i dubbi, pensi di aver sbagliato tutto, persino a scegliere la tua professione. Guardavo i miei compagni di scuola, anche quelli non bravi, che erano diventati direttori di banca e vivevano tranquilli mentre io e il mio socio guadagnavamo meno della nostra segretaria. Preso dalla disperazione mi sono pure candidato al posto di «ambasciatore» del Ticino a Berna, conosco le lingue e grazie al militare ho rapporti con tante persone. Mi piaceva l’idea. Ero così in crisi che mi sono anche annunciato per vendere Herbalife, ma volevo l’esclusiva in Ticino e tutto è finito lì. Nonostante le difficoltà non mi sono mai arreso. E, batti oggi, batti domani, sono arrivati i primi lavori. E tutto è ripartito».
La svolta con la Galleria del Ceneri
La Pini in quegli anni ha ottenuto il mandato per risanare l’autostrada nel Mendrisiotto. «Hanno visto che stavamo andando bene, che lavoravamo bene. E sono arrivati altri lavori, poi la grande sfida è stata l’Alp Transit. Che non è giunta per caso - racconta ancora Olimpio Pini - io seguivo questo progetto da tempo, dall’88 addirittura, andavo a Berna, chiedevo informazioni. La tappa più significativa è stata però un’altra: in quegli anni ho comprato un ufficio di ingegneria che aveva l’opzione, solo l’opzione, di realizzare la Galleria del Ceneri e con quel poco che avevo allora mi sono caricato di debiti e ho fatto quello che fa un imprenditore: mi sono buttato e ho rischiato. Da lì sono diventato capo progetto al Ceneri e quanto abbiamo imparato lo abbiamo esportato negli altri lavori, dal Brennero alla Torino-Lione, lottando, faticando in mezzo a mille sconfitte siamo partiti in 30 e alla fine siamo diventati in 500 (oggi i collaboratori sono 1’500), affermandoci come uno dei primi 50 studi di ingegneria del mondo». Quattro anni fa Olimpio Pini ha ceduto l’azienda. «Il mio percorso era finito, ero ancora pronto a litigare con il sindaco di Innsbruck o di Parigi, ma non con quello di Nuova Delhi o San Paolo», racconta Pini, che oggi vive con la moglie Nadja tra il Ticino, Zurigo e Paros: «Dove ho lavorato meglio? Posso solo parlar bene di come si lavora in Italia e in Austria, non sarei così positivo con la Francia», afferma sorridendo. «In ogni caso ogni lavoro è un capitolo a parte. Un cantiere è sempre un percorso complesso, il mio compito in questi anni è stato quello di gestire i contratti con le imprese, che sono soldi del committente, e di rispettare i tempi assegnati. In questo percorso l’esperienza nello sport e l’attività militare mi hanno molto aiutato. Quando tu hai un migliaio di operatori in un cantiere non sempre è facile mantenere l’armonia, devi fare attenzione perché l’ente pubblico che ti affida i lavori non accetta litigi ma vuole continuità, deve tutelarsi e tutto deve filare liscio lasciando fuori le polemiche. Se sei a capo di un progetto devi capire subito come far dialogare le sensibilità di persone che parlano lingue diverse, si portano dietro un bagaglio culturale e professionale differente. Il Ceneri in questo senso è stato una sorta di esperimento che mi ha consentito di misurarmi con una grande sfida».
La battaglia tra l’uomo e la roccia
«Quel tunnel, perché costava meno, è stato costruito con un metodo tradizionale, cioè con l’esplosivo, un processo più lento, mentre altri cantieri sono stati realizzati con la fresa meccanica che consente di andare avanti di decine di metri al giorno. Bisogna capire che quella tra roccia e uomo è una vecchia battaglia. Pensate che c’erano dei geologi che ancora nel 1995 dicevano che era impossibile costruire la galleria di base del Gottardo. Invece ci siamo riusciti e oggi possiamo chiederci cosa sarebbero la Svizzera e il Ticino senza quest’opera. Non solo, l’Alp Transit ha creato anche una metropolitana regionale dentro il Ticino».
Un Ticino che oggi deve fare i conti con «la propria rivoluzione di ottobre», come la chiama Pini, ovvero le due iniziative sulle casse malati approvate dal popolo che valgono svariati milioni da prevedere ogni anno. «Eppure io dico che il Ticino non deve mollare. Bisogna guardare avanti alle prossime sfide, coscienti che senza accordi bilaterali con l’Europa non si va da nessuna parte. Dal Politecnico non escono abbastanza ingegneri per le nostre ditte, e cosa facciamo allora? Se si vuole essere moderni, allargarsi anche oltre i nostri confini bisogna andare a caccia di talenti. La mia impresa è stata sempre multiculturale, abbiamo avuto persino nepalesi, bravissimi. Bisogna capire, e l’ho capito grazie a 40 anni di esperienza che la vera ricchezza di una ditta non sono le tecnologie o le strutture ma i dipendenti, il capitale umano. Personalmente ho licenziato tanti direttori, perché in quei casi c’erano in ballo progetti e la loro gestione, ma nella mia carriera non ho mai lasciato a casa un operaio. Se qualcuno era in difficoltà l’abbiamo aiutato. Questo ci è stato riconosciuto dal Best Workplaces Switzerland».
