L'intervista

«Purtroppo il presente somiglia al passato più buio»

Il regista Silvio Soldini torna nella sua Chiasso, per parlare dell'ultimo film: «Le Assaggiatrici» – Lo abbiamo intervistato
© CDT / CHIARA ZOCCHETTI
Viviana Viri
04.05.2025 15:09

Nei film di Silvio Soldini, il caso non è mai una semplice coincidenza, ma una forza invisibile che spinge i suoi personaggi a cambiare direzione, a fare scelte impreviste. Al centro delle sue storie ci sono sempre le relazioni umane e i destini individuali, come in Le acrobate (1997) o nel celebre Pane e tulipani (2000). Anche nel suo ultimo film (ora nelle nostre sale), Le assaggiatrici (2024), tratto dal romanzo di Rosella Postorino (Premio Campiello 2018), il caso gioca un ruolo cruciale, ma stavolta con esito avverso: racconta la realtà di alcune donne costrette a testare i pasti destinati a Hitler. Il regista sarà ospite di ChiassoLetteraria mercoledì 7 maggio, alle 20.45, al Cinema Teatro di Chiasso, in dialogo con Domenico Lucchini, autore del saggio Magico realismo - Il cinema di Silvio Soldini (Armando Dadò Editore, 2024). Lo abbiamo intervistato in anteprima.

Cosa l’ha portata ad avvicinarsi al romanzo di Rosella Postorino e cosa l’ha spinta a volerlo adattare per il cinema?
«All’inizio ero un po’ esitante: i film d’epoca non mi hanno mai attratto particolarmente e, da spettatore, spesso li trovo poco credibili. Tuttavia, la storia di «Le assaggiatrici» mi ha colpito profondamente, soprattutto per la forza del personaggio di Rosa e per il tema, tanto potente quanto poco conosciuto, delle donne costrette a testare il cibo destinato a Hitler. Ho capito subito che era una vicenda che meritava di essere raccontata. Ho scelto di lavorare con attori tedeschi perché mi sembrava fondamentale partire da un elemento di autenticità, soprattutto considerando che la storia si svolge in Germania nel 1943. L’aderenza alla verità, per me, era un punto di partenza imprescindibile».

Nei suoi film il caso è un tema centrale, trattato non come semplice coincidenza ma come forza misteriosa che può determinare le svolte fondamentali nella vita delle persone. Come si inserisce in questa storia?
«In questo film, il caso assume le sembianze di un destino avverso. Rosa, la protagonista, arriva a Berlino per sfuggire alla guerra, ma viene subito prelevata dalle SS. Da quel momento, la sua vita è segnata da una sorta di roulette russa: ogni giorno è costretta ad assaggiare cibo che potrebbe essere avvelenato. Non si tratta di una fortuna, ma di un destino imposto. Nei miei altri film, invece, il caso rappresenta spesso un’opportunità, una possibilità che il protagonista può scegliere di cogliere per cambiare la propria vita o uscire da una situazione difficile. Come accade nella vita, siamo noi a decidere se afferrare o meno le occasioni che ci vengono offerte. È questa la riflessione che cerco di trasmettere nei miei lavori».

I suoi personaggi sono spesso pieni di umanità. Al centro di questa storia, ancora una volta, c’è una giovane donna travolta dagli eventi, ma capace di resistere e desiderare. Quale ruolo hanno i personaggi femminili nel suo cinema?
«Il personaggio di Rosa mi ha profondamente emozionato ed è stato uno dei motivi principali per cui ho scelto di realizzare questo film. Raccontare la storia di una giovane donna di ventisette anni, intrappolata in una situazione estrema, mi è sembrato necessario. I personaggi femminili mi affascinano da sempre, perché attraverso di loro posso indagare temi che mi stanno particolarmente a cuore, come alcuni aspetti della nostra società, grazie alla loro particolare sensibilità. Ho voluto mantenere la prospettiva del romanzo, adattandola però al linguaggio visivo del cinema, senza tradirne l’essenza emotiva. La vera sfida, in questo processo, è stata preservarne l’anima pur apportando i cambiamenti necessari per renderlo efficace sul piano visivo. La fedeltà che cerco non è tanto letterale, quanto emotiva».

Nei suoi film, i personaggi si trovano inoltre coinvolti in situazioni di complicità involontaria. Come ha esplorato il confine tra responsabilità individuale e condizionamento storico?
«I miei personaggi si trovano spesso vittime di situazioni che non hanno scelto, e talvolta senza aver preso decisioni consapevoli. La vita li porta in contesti dove è difficile ribellarsi, dire di no o uscire da una spirale. Il tenente Ziegler, ad esempio, è un ufficiale delle SS che, pur essendo responsabile di atroci crimini, mostra la sua umanità nella relazione con Rosa. Si rivela essere anche un giovane che desidera amore, affetto, intimità. Alla fine, ciò che emerge è la nostra umanità comune. Questo ci ricorda che anche i peggiori crimini sono stati commessi da esseri umani».

In che modo la sua esperienza nel documentario ha influenzato la sua regia nel cinema di finzione?
«L’esperienza nel documentario mi ha insegnato a cercare sempre la verità in ciò che filmo, anche quando costruisco mondi immaginari. Nei film di finzione, pur muovendomi in un contesto interamente costruito, cerco sempre una verosimiglianza che mi permetta di credere a ciò che vedo. Nei documentari, invece, entro in un mondo reale cercando di farlo in punta di piedi, senza interferire troppo. Anche se la mia presenza lo modifica inevitabilmente, l’obiettivo è restare il più invisibile possibile. Lavorare in entrambi i contesti ha affinato la mia capacità di osservazione, aiutandomi a capire quando qualcosa, sul set, è autentico o almeno credibile. Una sensibilità che ho sviluppato proprio osservando persone vere, nei loro gesti quotidiani, nei loro modi naturali di muoversi e parlare».

Cosa ne pensa della definizione di realismo magico riferita al suo cinema?
«So di aver introdotto un po’ di magia nei miei film. Questo accade soprattutto in Agata e la tempesta (2004), ma anche in Le acrobate (1997), dove il caso ha un aspetto quasi magico. Credo che questi elementi siano legati al mio modo di osservare la vita dei personaggi: c’è sempre qualcosa che li sospinge, una forza sottile che li muove, anche se non ne sono del tutto consapevoli. Una presenza invisibile, ma che è comunque presente e agisce su di loro».

Dopo il successo di Pane e tulipani (2000), i suoi film sono sempre stati molto diversi tra loro. C’è un filo rosso che li lega?
«Ogni autore ha uno sguardo unico sulla realtà, che si riflette nel modo in cui racconta storie, anche molto diverse tra loro. Nel mio caso, il filo rosso non è tanto un tema ricorrente, quanto l’attenzione all’umanità e alle relazioni: osservo i minimi spostamenti emotivi tra i personaggi, perché è lì che si nasconde la verità, ciò che rende un film autentico. Il lavoro con gli attori è centrale nel mio cinema, così come lo sono l’inquadratura, il montaggio, il ritmo. Non ho mai cercato di ripetermi, nonostante in molti mi abbiano proposto un sequel di Pane e tulipani, perché credo che ogni film debba rappresentare una nuova sfida, con temi e linguaggi sempre diversi».

Durante la lavorazione del film cosa ha provato nel vedere riemergere temi che sembravano appartenere al passato?
«Purtroppo, mentre scrivevo, giravo e montavo questo film, ho avuto la netta sensazione che il presente si stesse pericolosamente avvicinando al passato che raccontavo. La violenza, l’arroganza del potere, la pressione esercitata sulle nostre vite sono diventate percepibili in modo inquietante. Non è tanto la fantasia a evocare il passato, quanto il presente che sembra riproporlo. Quando ho sentito Trump pronunciare un discorso quasi identico a quello tenuto da Hitler dopo l’attentato di Von Stauffenberg nel 1944, sono rimasto turbato. Entrambi parlavano della provvidenza come guida delle loro azioni. È inquietante sentire ancora oggi risuonare certe parole».

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