L'incontro

Ronnie Kessel: «Auto? Amore e odio»

La storia di una passione in comune tra padre e figlio
Giorgia Cimma Sommaruga
04.09.2022 15:00

Ronnie Kessel arriva puntuale come il suo sorriso, al Santabbondio di Sorengo. Il personale ci accoglie in modo cordiale, visitiamo la cantina che ospita ottimi vini ticinesi, e poi ci sediamo al nostro tavolo. Lo scorso anno gli avevamo chiesto se Valentino Rossi avrebbe corso in auto con il Team Kessel, ma ha scelto l’Audi. Oggi parliamo solo di lui, Ronnie Kessel è un figlio d’arte, è vero, ma che ha fatto sua, l’arte del padre, Loris. Assimilati gli insegnamenti, prima della prematura scomparsa di Loris, Ronnie fa dell’azienda di famiglia la sua vita dedicandole anima e corpo. Oggi ha 34 anni, è proprietario e immagine di una azienda, tutta ticinese, conosciuta in tutto il mondo.

Signor Kessel, oggi come descriverebbe la sua attività?

«Con una sola parola: CARS».

Macchine in inglese...

«Certamente, ma non solo. Nel nostro caso questa parola rappresenta l’assetto aziendale. La Kessel è una attività molto eterogenea perché siamo tra le poche realtà a livello mondiale attive in tutti e 4 i settori dell’automotive».

Quali sono?

«Classic, Automotive, Racing, Service. Abbiamo personale che lavora su vetture classiche degli anni ’50, il personale che lavora su vetture da corsa che devono essere super performanti, oppure il personale specializzato che offre vetture da collezione, e ancora, tutti i servizi che vi sono dietro».

Questo nuovo «assetto» è arrivato con il suo ingresso in azienda?

«Si. La mia decisione, da quando è scomparso mio padre nel 2010, è stata di ingrandire. Mio padre è morto a 60 anni di leucemia, io avevo 21 anni. Per fortuna ha avuto due anni per preparare il mio ingresso in azienda. Ho da subito compreso l’importanza di avere al proprio fianco dei validi collaboratori, perché da soli non si va da nessuna parte. Essere una concessionaria generica che offre i migliori brand o specializzarmi?»

Ha fatto la sua scelta...

«Ho scelto di specializzarmi con il brand Ferrari sfruttando tutta la sua unicità: è una vettura classica, ma è un brand che fa tante vetture moderne, da collezione e da racing».

A questo punto ci è arrivato anche grazie alla «gavetta». Quando suo padre ha scoperto di essere malato lei è entrato in azienda, ed era giovanissimo.

«Quello è stato un periodo molto tosto anche dal punto di vista emozionale. Ho frequentato il Bachelor all’USI a Lugano, perchè all’epoca disputavo delle gare in auto. E alla fine di quel percorso di studi mio padre si ammalo: il mio Master è stato lavorare al suo fianco e apprendere tutto quello che potevo».

Cosa ha imparato?

«Gli insegnamenti sono partiti dalle basi, ad esempio capire cosa contenevano i classificatori in ufficio, e poi man mano cose sempre più complesse. In due anni ho preso in mano una realtà che già contava 60 dipendenti. La sfida più grande, ed è anche ciò che mio papa mi ha insegnato: affermarti a livello lavorativo con autorevolezza e non con l’autorità».

Mio padre svolgeva un lavoro che è molto affine alla passione che spesso nasce nei maschietti: le macchine

Non sempre i figli vogliono seguire ciò che hanno fatto i padri. Magari hanno altre ambizioni, o aspirazioni. Nel suo caso, la scelta è stata responsabilità o passione?

«Beh... Mio padre svolgeva un lavoro che è molto affine alla passione che spesso nasce nei maschietti: le macchine. Mi sono avvicinato alla su passione perchè ne ero affascinato, non per emulazione. Tuttavia con l’automobile ho un rapporto di amore e odio. C’è la passione, ma l’ho anche temuta tanto, quando negli anni ’90 mio padre correva ancora io ero piccolino, e ci sono stati in quegli anni parecchi incidenti mortali. Michele Alboreto, Airton Senna, Roland Ratzenberger… sono morti sulle loro auto davanti agli occhi di tutti noi appassionati che di domenica vedevamo il gran premio. Questo mi ha portato un pochino ad allontanarmi dal mondo delle automobili. Mi sono riavvicinato quando lui ha smesso con l’agonismo, e anche grazie al fatto che lui non mi ha mai imposto di seguirlo, o di correre con i go kart. Tutto è nato da me. E lui ovviamente quando l’ha notato mi ha sempre accompagnato. Penso che lui sia stato molto lungimirante nel proiettarmi nel mondo automotive, incluse le esperienze agonistiche, ma senza spingermi a diventare - ad esempio - pilota di Formula 1 come lui è stato. Molti padri voglio i figli a loro immagine e somiglianza».

E se invece avesse voluto a tutti i costi intrapprendere la strada dell’agonismo: ha dei rimpianti?

«No perchè sarebbe stato uno sbaglio. Probabilmente mi sarei concentrato solo ed esclusivamente sulla carriera agonistica, non sugli studi, e posso tranquillamente dire che senza gli studi universitari che ho condotto, avrei fatto davvero fatica a portare avanti l’attività che mio papà mi stava lasciando. Lui è stato bravo nel supportarmi, e farmi comprendere che, era normale per un ragazzino di 12 anni dire «Da grande foglio fare il pilota di formula 1», ma quel tipo di carriera comportava grandi sacrifici, si tratta di uno sport estremo e pericoloso, e la possibilità di trovarmi a 20/22 anni senza una vera formazione scolastica e con il sogno svanito di approdare in formula 1, per una questione di capacità, ma anche per una questione di sponsor. Oggi la formula 1 non è più tanto meritocrazia, bensì chi porta più sponsor, se no non giustificherei il 50% della griglia».

Il suo rapporto con le automobili è cambiato?

«Ho capito l’importanza del periodo come agonista, perché mi aiuta oggi nelle sfide imprenditoriali del quotidiano. Ogni anno «aziendale», è comunque una gara, perché inizia a gennaio e bisogna tagliare nel migliore dei modi il traguardo a dicembre, e curva dopo curva, mese dopo mese, devi rimanere concentrato sull’obbiettivo. Io nella mia testa mi sono configurato la vita come un campionato, e ogni anno è una tappa di questo campionato».

Il suo passato è di aiuto anche per capire le esigenze dei piloti?

«Proprio perché io l’ho fatto in prima persona comprendo le esigenze dei piloti, quindi quando ci troviamo in campo gara io sono sempre presente, non ho un ruolo all’interno del team, perché ci sono figure competenti, ma sono lì perché con gli occhi del pilota laddove c’è un problema lo vedo e riesco a intervenire».

Un bravo allenatore, o dirigente sportivo o direttore, deve aver praticato quello sport in prima persona. Diversamente avresti tante nozioni, ma non sai se la strada da percorre è fattibile o meno

Dunque l’esperienza fa sempre la differenza...

«Indispensabile. Un bravo allenatore, o dirigente sportivo o direttore, deve aver praticato quello sport in prima persona. Diversamente avresti tante nozioni, ma non sai se la strada da percorre è fattibile o meno, perché non l’hai mai fatto. Tutti i manager dei vari reparti nell’automobilismo sono persone che sono cresciute sul campo, e poi per volontà loro hanno deciso di fare anche percorsi formativi per specializzarsi».

Nel 2009 a Valencia, Ronnie e Loris gareggiano assieme, 58 e 18 anni, due generazioni diverse a confronto.

«Quella gara è stato un grandissimo traguardo per lui. Probabilmente l’ultima, e la più grande gioia che è riuscito a condividere con me. Dimostra il fatto che, senza imporre nulla, suo figlio si è ispirato a lui. Che ama le auto, e che cerca di trasmettere la sua passione. Io onestamente oggi mi sento anche un po’ ambasciatore del brand che rappresento. Quella gara è stata la prima in assoluto che si è svolta sul circuito cittadino di Valencia. Abbiamo anche una foto che ci immortala sul podio. È l’unica che ho con mio padre con gli abiti da corsa. Per me un qualcosa di veramente prezioso».

Qual è l’insegnamento piu grande guardando alla carriera di suo padre?

«Direi la perseveranza. Dietro la perseveranza si cela tutto quello che è il tuo approccio nella vita. Mio padre diceva che perseverare è diabolico, perché in qualsiasi situazione, se tu vuoi arrivare all’obiettivo, e perseveri, all’obiettivo ci arrivi».

Il figlio di Schumacher? Il suo arrivo in F1 è stato anche molto strumentalizzato perché è chiaro che non abbia le stesse dotti del padre, seppur si stia dimostrando un bravo pilota

Di padre in figlio. Mick Schumacker e la carriera in Formula1. Cosa ne pensa?

«Questo è un caso molto particolare e sfortunato. Le circostanze di salute in cui versa il padre sono misteriose. Non abbiamo ancora dato un addio a Michael. Per un figlio è molto difficile portarsi questo fardello - un padre campione - dove spesso e volentieri vivi di luce riflessa. Penso che questo ragazzo faccia molto fatica a darsi tregua. Il suo arrivo in F1 è stato anche molto strumentalizzato perché è chiaro che non abbia le stesse dotti del padre, seppur si stia dimostrando un bravo pilota. Io onestamente non sono neanche sicuro che a lui piaccia quello che sta facendo, penso che viva molta pressione. Probabilmente c’è stata in lui la forte voglia rendere un omaggio al padre, e sicuramente anche gli sponsor hanno visto in lui una buona possibilità per creare una continuità».

Che consiglio darebbe ad un giovane che desidera entrare nel mondo dell’automobilismo?

«Prima di tutto di seguire le proprie passioni. Perseguirle. Farsi consigliare. Essere umili. E poi riflettere: la vita non è da intendersi come fosse una pagina instagram. Non è tutto oro quello che luccica. Spesso ci capita di navigare sui social, e finire anche nella mia pagina, vedere automobili bellissime, circuiti di tutto il mondo, e pensare che sia un lavoro facile. Non lo è. I sacrifici sono davvero tantissimi».

Qual è il suo motto oggi?

«Crederci sempre. È la quote che più mi contraddistingue, e la si vede un po’ ovunque nella mia vita: dai miei profili social, a casa, in azienda».