«Sono solo un carcerato e non esisto per nessuno»
«Spero che qualcuno venendo a conoscenza della mia storia possa prendere in mano la situazione». Mujo Mujic ha una voce squillante. In sottofondo si sentono, come sempre, i rumori del carcere. Porte che sbattono. Passi nei corridoi. Non è la prima telefonata che il detenuto fa in redazione. «La mia storia non giustifica i reati che ho commesso», dice, mettendo le mani avanti. Perché la sua storia è anche quella di una persona che per quasi tutta la vita ha fatto dentro e fuori dal carcere. Furti, ricettazione, rapine, sequestri, rapimenti. La lista è lunga. «Però non ho mai commesso reati di sangue», precisa, mettendo subito un confine, uno spartiacque ritenuto importante. Arrestato a Zurigo nel 2021 per aver rapinato e sequestrato una persona in strada a Chiasso, «l’ho costretta a prelevare al bancomat e a seguirmi fino a Milano dove volevo vendere la sua auto», Mujic sostiene di essere quello che è «perché l’illegalità era l’unica che mi garantiva la sopravvivenza». Ma si dice anche pronto a rigare dritto, a non commettere più reati.
Le discriminazioni
«Voglio cambiare vita. Voglio fare qualcosa di positivo per me stesso. Aspetto solo di averne l’opportunità». Detta così suona abbastanza semplice. Se non fosse che Mujic è un sans papiers. Non ha mai avuto documenti d’identità, né un atto di nascita. «Non esisto civilmente, ma esisto penalmente», si lascia scappare, preso dallo sconforto di una situazione che si potrae da sempre. Da quando è nato nell’ex Jugoslavia da papà bosniaco di etnia rom balcanica e mamma serbo montenegrina. «Come rom eravamo emarginati e in cattiva luce. I miei genitori erano nomadi. Si spostavano tra la Croazia e la Bosnia e io sono nato proprio durante un viaggio a Zagabria in un periodo storico dove non esisteva l’obbligo legale di registrazione del nascituro anche se nato in ospedale».
A tutto ciò si aggiungono le discriminazioni, appunto. «Che verso di noi erano estreme, ci impedivano di accedere a lavori dignitosi e ci portavano quasi obbligatorialmente a scelte di piccola e media criminalità». In più Mujic non va a scuola. «Non ci sono mai andato. Sono cresciuto con i miei genitori fino a 7 anni e mezzo e poi sono stato abbandonato dato che la mia famiglia non poteva più sfamarmi». Finire in mezzo alla strada significa solo una cosa. «Sono cresciuto con senza tetto, prostitute, ladri e tutto un sottobosco criminale immaginabile che mi ha insegnato l’unico concetto di sopravvivenza che queste persone conoscevano: rubare».
Mujic viene arrestato varie volte. Fino a quando «il 23 maggio 1993 sono andato all’estero per la prima volta, in Italia. Ero stanco di quella vita. Volevo aiutare la mia famiglia. Ma siccome ero minorenne e senza documenti nessuno mi prendeva, nemmeno per lavorare in nero, così mi sono ritrovato nella stessa situazione da cui volevo fuggire». Mujic ha ricominciato a entrare e a uscire dai carceri minorili, dalle comunità e dalle prigioni per adulti. Fino a quando «le autorità italiane mi hanno condannato per un cumulo di pene e reati commessi per un totale di 32 anni di carcere scesi a 19 dopo vari appelli e ricorsi. Di quei 19, 17 li ho effettivamente passati in galera». Anni difficili. Anni problematici. Perché Mujic è sempre senza documenti e nemmeno l’aver frequentato «una decina di corsi professionali e altri studi scolastici» cambiano la situazione. «Andavo bene per essere carcerato, ma non per avere un lavoro regolare e documenti regolari», chiarisce.
Verso la Danimarca
Un giorno però esce dal carcere e decide di andare in Danimarca, «dove mi era stato detto che certe discriminazioni, sia razziali che penali, erano state mitigate con successo. Il welfare danese mi avrebbe dato la possibilità di iniziare la mia vita legale. Ma entrando in Svizzera senza soldi mi sono ritrovato un’altra volta obbligato a delinquere per sopravvivere e per portare avanti il mio progetto di andare in Danimarca».
Si arriva al 2011, quando Mujic viene arrestato a Zurigo, mentre sta tentando un’altra rapina, dopo quella già portata a termine a Chiasso. «Mi ritrovo in una situazione kafkiana - prosegue - esisto e al tempo stesso non esisto. Esisto per l’autorità penale, ma non per uno Stato. Perché non ho ancora alcun documento anche se ho provato a fare richiesta a tutte le ambasciate dell’ex Jugoslavia, senza successo».
Il rumore dei passi nel corridoio aumenta. Qualcuno urla qualcosa di incomprensibile. La telefonata sta giungendo al termine. «Chiamo settimana prossima. Spero di riuscire a parlare ancora con la redazione. Voglio davvero essere aiutato. Possibile che nessuno riesca a fare qualcosa per me?». Qualcuno una volta ha detto che non esistono domande difficili ma che sono le risposte a essere difficili. Chissà se questo detto deve valere sempre.