«Trump e Putin? Si respira il clima della conferenza di Monaco del 1938»

È successo 85 anni fa e potrebbe risuccedere. Le guerre in atto tra Ucraina e Russia, Israele e Palestina, oltre al conflitto scatenato da Trump con i dazi, sembrano riproporre il clima della conferenza di Monaco del 1938 da cui scaturì la scintilla della Seconda guerra mondiale. Nel suo «Scacco alla pace» (Neri Pozza, 496 pagine), il libro in cui il diplomatico e scrittore Maurizio Serra con impeccabile precisione racconta i disastrosi antefatti e le clamorose conseguenze della storica assemblea, emergono le analogie con i nostri tempi. Nato a Londra, autore di saggi e romanzi, nella sua carriera di diplomatico Maurizio Serra - primo e unico italiano tra gli immortali di Francia dell’Académie Française - ha ricoperto numerose cariche e ha concluso il suo percorso dopo essere stato ambasciatore Unesco a Parigi e ambasciatore ONU a Ginevra. Con questo saggio ha vinto a Voghera la seconda edizione del «Premio Alberto Arbasino».
Ambasciatore, come siamo arrivati a questa situazione?
«Che la storia si possa ripetere è sempre difficile dirlo, ma certe analogie, in questi anni sono piuttosto evidenti e rendono la cosa possibile. Per quanto riguarda la conferenza di Monaco del 1938 abbiamo una documentazione vastissima ma oggi ci muoviamo in una situazione estremamente fluida con colpi di scena ogni giorno. Perciò dobbiamo vivere alla giornata più da analisti che da storici. Quello che colpisce è un fatto che non perdo occasione di rimarcare: quando Hitler prese il potere a Berlino e l’assetto dell’Europa post bellica cominciava a disgregarsi, le cancellerie europee erano sul chi vive, ma non si mossero per impedire o rallentare la corsa verso il baratro».
Oggi sembriamo tornati indietro nel tempo: Putin vuole l’Ucraina, e poi chissà; Trump vuole la Groenlandia anche con la forza: uno sfoggio di potenza?
«Certamente la forza è un concetto che il diritto internazionale, soprattutto nel secondo dopoguerra con la creazione delle Nazioni Unite (per modesto che possa sembrarci questo risultato), ha cercato di ridurre e di trasformare i dissensi in dialogo tra le varie aree del mondo. Ma riusciremo a restare dal punto di vista della ragione o del diritto rispetto a quello della forza? È un quesito che riguarda in primo luogo noi europei».


Putin, cosa vuole veramente?
«Quello che vuole veramente Putin non lo sappiamo. Certamente il suo è un atto di aggressione e di conquista, che riguarda una zona di sicurezza intorno alla Russia, con una serie di governi vassalli e amici. Se l’Ucraina avesse avuto un governo di tipo bielorusso, probabilmente non ci sarebbe stata alcuna guerra in Ucraina».
Appena insediato Trump sembrava intenzionato a pacificare Russia e Ucraina. Ora sembra essersi arenato. Troppo alte le pretese di Putin?
«Trump ha completamente cambiato la posizione americana nei confronti dell’Ucraina e della crisi, e voleva fare tutto a modo suo in un’Europa sorpresa dal suo comportamento, benché l’avesse lungamente minacciato. Sono stato a New York da poco, e ho potuto verificare con i miei interlocutori - quasi tutti del mondo intellettuale, quindi non trumpiani -, che forse c’è stato un freno anche all’interno dell’America. Il fatto che Trump abbia fatto immediatamente delle concessioni che lo hanno mostrato più che un mediatore, quasi un sostenitore di Putin, ha bloccato l’opinione pubblica americana».
Perché?
«Non dimentichiamo che per parecchi americani Putin è un ex uomo del KGB, un sovietico, un bolscevico per molti versi sotto nuova pelle. L’idea che da Trump, sia stato concesso troppo e troppo rapidamente e che Putin ne abbia approfittato per alzare la posta, ha creato molta freddezza e sconcerto nell’opinione pubblica americana. Ed è per questo che anche Trump ha dovuto cambiare passo e adottare un po’ una retorica del tipo «Putin mi ha deluso». In realtà è lui che si è deluso da solo».
Se andassero avanti gli accordi Russia-Stati Uniti che escludono l’Europa, anche Zelens’kyj rischia d’essere solo un terzo incomodo senza voce in capitolo?
«Trump ha lanciato un’apertura alla Russia sopra la testa di Zelens’kyj, ma accordi non ne ha fatti. Da quel momento la situazione non si è sbloccata, e credo che una presa di coscienza europea, anche della necessità di preservare e salvaguardare certe nostre necessità strategiche e al tempo stesso gli impegni reali verso l’Ucraina, rimangono».


Alle guerre con le armi Trump aggiunge il conflitto dei dazi anche se al momento ha concesso una proroga. Come reagire?
«Quella dei dazi è una misura dolorosa, e fino all’ultimo si sperava che non avrebbe avuto luogo. Credo però che anche gli Stati Uniti a loro volta dipendono da alcune importazioni strategiche dall’Europa. Il discorso può avere contromisure e può avere pesi anche per l’economia americana. Ci sono già trattative. Questa proroga è un buon segnale».
Il riarmo europeo è una decisione necessaria?
«Il discorso del riarmo è una cosa importante. Bisogna capire che l’Europa non è soltanto un’aggregazione di Stati che possono continuare ad occuparsi a tempo indeterminato del loro sviluppo, grazie alla presenza del gendarme americano. Decidendo di svincolare le spese militari dal patto di stabilità, l’Europa s’è resa conto che è necessario un sistema di difesa efficace. Io credo che sia anche salutare per gli europei, che devono contribuire di più e meglio alla loro difesa. La presa di coscienza dell’Europa potrebbe essere l’unico elemento positivo del ciclone Trump, a volerlo vedere dal lato giusto».
Una resa dei conti in qualche modo?
«Come europei ci siamo cullati per anni in una posizione di facile sviluppo interno sapendo che l’America ci proteggeva, e indolore rispetto alle grandi sfide internazionali: ma era ora che l’Europa si svegliasse. Se vogliamo diventare un soggetto politico autonomo e significativo, dobbiamo renderci conto anche delle responsabilità che ciò comporta».
Le paure per una Germania nuovamente in armi, sono reali secondo lei?
«No: personalmente non le condivido. La Germania è un Paese faro, forse il Paese di riferimento in Europa. L’abbiamo sempre considerato un gigante economico e un nano politico militare, ma queste cose non hanno senso. Abbiamo bisogno di una Germania forte all’interno dell’Europa e, secondo me, i risultati non soddisfacenti delle ultime elezioni, derivano anche dalla visione in cui ai tedeschi si chiede di essere una locomotiva ma non un fattore decisivo. Devono tornare ad esserlo come lo sono stati negli anni di Kohl e della Merkel. Non si può pensare che il Paese europeo più importante non abbia un ruolo di primo piano».