Trump fa presto a dire «due settimane»

È successo di tutto ma non è cambiato molto. Tutti i fronti di guerra sono rimasti aperti e ci sono segni di tempesta anche nei Caraibi. Tra i leader «globali» è stato certamente Donald Trump a prendere la scena, per scelta e perché obbligato dalle circostanze. Qualcuno lo ha già soprannominato «Mister due settimane».
Lunedì Trump ha affermato che la terrificante tragedia di Gaza finirà «entro due-tre settimane», il suo inviato Steve Witkoff ha spostato la scadenza a dicembre. The Donald ha alternato le accuse ad Hamas alle preoccupazioni - vaghe - per il disastro umanitario, con la popolazione allo stremo. Ma non si è opposto alla volontà di Tel Aviv di lanciare una nuova offensiva su Gaza City. E anche qui siamo sempre alla «prima casella»: nel senso che dopo tutti questi mesi Israele ribadisce il messaggio di voler proseguire fino «alla vittoria» sul nemico malgrado lo Stato Maggiore abbia espresso dubbi sui tanti rischi. Ecco altre vittime, pericoli di trappole per i soldati, unità allo stremo e speranze ridotte per i pochi ostaggi ancora nelle mani dei guerriglieri.
Sempre agitato il quadrante yemenita. Gli Houthi, arroccati nella loro «fortezza», hanno preso di mira le navi in Mar Rosso e lo Stato ebraico usando droni kamikaze oppure missili. Alleati dell’Iran hanno proseguito nella loro sfida che, nonostante i danni, li consacra come grandi avversari degli Usa, della Gran Bretagna e di Israele. Tel Aviv ha replicato con bombardamenti e uno strike per eliminare alcuni leader. Incerto l’esito dell’operazione.
Sempre cupa ed incerta la situazione nella guerra in Ucraina. Il vertice, a sorpresa, di Trump con Vladimir Putin in Alaska ha lasciato poco spazio alle speranze di una breccia positiva. Mosca ha giocato tattiche dilatorie, ha mantenuto una posizione poco propensa al dialogo e, soprattutto, ha martellato senza sosta le località avversarie con raid devastanti. Alla vigilia del summit gli osservatori avevano predetto: attenzione, l’incontro sarà un’opportunità per il leader del Cremlino, mostrerà ai suoi di essere uscito dall’isolamento venendo ricevuto in terra americana. Così è stato. Tappeto rosso, strette di mano, atmosfera calorosa. Trump, attento ai commenti e ossessionato dall’idea di ottenere il Nobel per la pace, è oscillato tra segnali (formali) di impazienza verso il neo-zar - ribaditi nelle ultime ore - e il compiacimento di un summit, diventato comunque una «tacca» di merito sul suo cinturone. Non a caso è tornato a rimproverare Zelensky per poi fare un passo indietro dopo aver visto le evidenti difficoltà. Pochi giorni fa ha minacciato sanzioni contro il Cremlino, ha autorizzato una fornitura ampia di armi a Kiev - pagata però dagli europei - ma, al tempo stesso, avrebbe permesso contatti per scambi in campo energetico con Mosca. E a chiudere il cerchio l’epurazione di funzionari Cia esperti di cose russe ma considerati non allineati.
I nodi politici si sono sommati a quelli sul campo di battaglia. L’Armata russa preme, pianta una bandiera su alcune località ma deve subire le incursioni ucraine che hanno inciso, in modo sensibile, sul settore petrolifero, con conseguenze significative per i cittadini. Vladimir Putin, per contro è atteso in Cina per una «visita senza precedenti», risposta diretta a quanti si illudevano di dividere le due potenze. E qui ritroverà il dittatore nord coreano Kim Jong un, presente alla grande parata militare. L’asse «rosso» è più compatto che mai mentre l’Occidente è diviso.
Non mancano infine movimenti in nuovi teatri. La Casa Bianca ha schierato diverse navi al largo del Venezuela ed ha alzato la taglia sulla testa del presidente Nicolas Maduro, una duplice azione presentata come lotta al narcotraffico che per alcuni rappresenta l’inizio di una manovra per un cambio di regime. Caracas ha risposto con la mobilitazione. In contemporanea ecco un’altra mossa americana nei confronti del Messico con il Pentagono autorizzato a colpire, se necessario, i cartelli della droga. I messicani, però, non sono per nulla d’accordo. Ma hanno capito che per rabbonire Trump dovevano offrire qualcosa: così hanno consegnato agli Usa 26 criminali. La conferma di come ogni cosa abbia un suo prezzo.