L'intervista

Un frontaliere a Berna: «La mia una scelta economica»

Rudi Berli, agricoltore e sindacalista, da Ginevra si è trasferito in Francia e ora entra in Consiglio Nazionale - Ci racconta la sua coerenza
Andrea Stern
Andrea Stern
02.11.2025 10:30

Gli è già stata messa l’etichetta del «frontaliere in Consiglio nazionale» ma Rudi Berli ha un profilo ben differente dal Bussenghi di turno. Zurighese di nascita, ginevrino di adozione, il subentrante di Nicolas Walder è principalmente un orticoltore che ama il proprio lavoro, nonché un sindacalista che intende continuare a battersi a Berna affinché le prossime generazioni possano dedicarsi all’agricoltura. «Il grande problema dei contadini, oggi, è il reddito», afferma.

Signor Berli, pensavo che il grande problema dei contadini fosse il lupo.
«Il lupo è un elemento che crea ulteriori difficoltà a un’economia alpestre già parecchio sotto pressione. Occorre una soluzione».

Quale soluzione?
«La soluzione passa dalla regolamentazione, da indennità agli allevatori, da misure finanziarie che permettano la protezione delle greggi. Bisognerà ingaggiare del personale, mettere in atto misure di protezione. Costerà caro».

Vale la pena spendere tutti questi soldi?
«Bisogna trovare un equilibrio. Oggi il lupo avanza e la situazione non è più sostenibile».

Molti contadini hanno l’impressione che il suo partito - i Verdi - abbia preso le difese del lupo.
«Io non la vedo così. Il mio partito prende sul serio le preoccupazioni del mondo agricolo. Abbiamo tutti interesse a preservare l’economia alpestre, che è parte integrante del nostro sistema di approvvigionamento alimentare. Ha perfettamente senso continuare a utilizzare le Alpi per nutrire il bestiame».

A Ginevra i Verdi volevano anche vietare ai propri membri di consumare carne.
«Guardi, io mangio carne. Mi piace e sono convinto che sia importante mantenere l’allevamento. Gli esseri umani non mangiano erba. I ruminanti la valorizzano trasformandola in proteine. Dunque in Svizzera abbiamo bisogno del bestiame, che deve essere presente dappertutto e non concentrato in alcune aree».

Il consumo di carne non è problematico?
«Il problema della carne è la produzione industriale. Ma noi in Svizzera abbiamo un modello tradizionale di poli allevamento che è perfettamente adattato alle nostre condizioni. Dobbiamo difendere un’agricoltura diversificata e l’animale ne fa parte».

Lei cosa produce?
«Soprattutto verdure e anche un po’ di frutta».

Bio?
«Sì, abbiamo il marchio Bio da quasi 50 anni».

Siete dei pionieri. È stata una scelta ideologica o economica?
«A livello economico non c’è una grande differenza tra l’agricoltura biologica e convenzionale. È una scelta che va incontro alle richieste della nostra clientela. Siamo una cooperativa che fa soprattutto vendita diretta, abbiamo più di 400 economie domestiche che si sono abbonate e ogni settimana ricevono un cesto di verdura. E poi andiamo ai mercati».

Si vive?
«Si vive, ma sicuramente non si diventa ricchi».

È per una questione di reddito che ha deciso di fare il frontaliere?
«Non è stata una vera e propria decisione. Avendo una famiglia da mantenere con un reddito modesto in un Cantone con una forte pressione sul mercato degli alloggi, trasferirsi in Francia è stato un passo pressoché obbligato».

Ecco, torniamo al discorso del reddito.
«Sì, è un vero problema nell’agricoltura svizzera. La società chiede sempre di più ai contadini ma deve anche dare loro le condizioni di poter vivere. Il salario medio nella filiera è di 17 franchi all’ora. Quasi tutte le famiglie contadine devono appoggiarsi a un reddito esterno per sopravvivere. Ogni giorno in Svizzera perdiamo due o tre fattorie e altre non trovano un ricambio. Qui urge intervenire».

Parmelin è viticoltore, Rösti ingegnere agronomo, Jans è stato apprendista agricoltore, Baume-Schneider è cresciuta in una famiglia contadina. Il sostegno all’agricoltura non dovrebbe mancare.
«Se fosse così, non avremmo un continuo declino dell’agricoltura. Si parla sempre di lobby agricola, ma le cose sono due: o non fa il proprio lavoro correttamente o non esiste, perché nei fatti la situazione è pessima. Quello della lobby agricola è un mito non supportato dai fatti».

Poi arrivano iniziative come il mezzo chilo di pane di Aldi a 99 centesimi a peggiorare ulteriormente la situazione.
«È aberrante, non so come sia possibile remunerare correttamente tutta la filiera e vendere un pane a questo prezzo da dumping».

Si riforniscono all’estero?
«Ma anche acquistando la farina all’estero non si può arrivare un prezzo così basso. Io credo che questo pane sarà oggetto di una contestazione al sorvegliante dei prezzi».

Magari la gente è contenta di spendere meno?
«Questa tendenza fa parte del problema. Oggi spendiamo meno del 10% del nostro reddito per l’alimentazione, mentre spendiamo sempre di più per alloggio, salute e passatempi. È un gatto che si morde la coda. Non si può pretendere di avere un’agricoltura sostenibile e non essere pronti a pagare un prezzo».

Magari c’è chi non può?
«È vero. Per questo dobbiamo fare di tutto per difendere il potere d’acquisto dei cittadini».

Lei si è trasferito oltre confine per una questione di costi. Non crede che il frontalierato sia una scorciatoia che consente alla Svizzera di non affrontare certi problemi come la penuria di alloggi o la carenza di manodopera qualificata?
«In parte sì. Noi importiamo manodopera scaricando parte dei costi sui nostri vicini, a partire dai costi di formazione».

Per risparmiare, Ginevra non vuole più accogliere i figli dei frontalieri nelle proprie scuole.
«Sì, è una decisione presa dal Consiglio di Stato appena prima delle vacanze estive, contro la quale ci stiamo battendo. Circa 2000 bambini, tra cui una dei miei figli, rischiano di non poter concludere la scuola in Svizzera».

Non le sembra normale che ognuno vada a scuola nel Paese in cui vive?
«Ma qui stiamo parlando di bambini e ragazzi che nell’80% dei casi sono svizzeri e che quasi sicuramente finiranno per lavorare in Svizzera, perché Ginevra ha bisogno di queste persone. Non mi sembra sensato impedire loro di concludere il ciclo scolastico in Svizzera, obbligandoli ad iscriversi alla scuola francese».

Come frontaliere, lei fa tutti i giorni avanti e indietro dal confine?
«Oggi sì, ma per noi agricoltori la frontiera non esiste già praticamente più, abbiamo una zona franca che ci permette di coltivare i campi sia sul versante svizzero che francese».

Le verdure cresciute in Francia vengono vendute come svizzere?
«Sì, e viceversa. Ma alla cooperativa questo non ci riguarda, dato che tutti i nostri campi si trovano in Svizzera».

Continuerà a lavorare come orticoltore anche quando sederà in Consiglio nazionale?
«Sì, lascerò l’incarico per il sindacato Uniterre ma continuerò a lavorare nei campi. Per me è importante mantenere le mani nella terra».

Sarà uno dei pochi parlamentari che si sporcano le mani.
«Sarò anche uno dei pochi che si esprimono nelle tre lingue nazionali. Ho lavorato e vissuto per alcuni anni in Toscana. Quando posso, mi piace poter parlare un po’ in italiano».

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