L'incontro

Vittorio Feltri: «Non si può essere così imbecilli da fare la guerra al dizionario»

Cronaca di una conversazione in casa del giornalista italiano sul politicamente corretto e sul suo libro «Fascisti della parola»
© CdT/Gabriele Putzu
Tommy Cappellini
Tommy Cappellini
25.02.2024 06:00

Una fredda mattina d’inverno a Muzzano, sul presto. C’è ancora la brina. Piazzale parcheggi del Corriere del Ticino.

Arriva Gabriele Finzi Putzu (*).

– Ce la faremo?

– Prima legge del giornalismo, Gabri... Portare sempre a casa l’osso. Tu le foto, io l’intervista.

– In tivù l’ho visto stanco. Ripetitivo.

– Vorrà dire che cucineremo l’ossobuco. O il brasato. Che ne so...

– ... ?

– Niente, dai. È tardi e a Milano ci sarà il solito traffico.

In auto.

Neanche a Sorengo e siamo fermi.

– Ma perché lo intervistiamo?

– È uscito per Rizzoli questo suo libro, Fascisti della parola. Sottotitolo stimolante. Sei pronto?

– Dimmi.

Da «negro» a «vecchio», da «frocio» a «zingaro», tutte le parole che il politically correct ci ha tolto di bocca.

– Poteva scriverlo solo lui.

– È tra i massimi esperti. Il tema è dibattuto anche in Svizzera. Va male ovunque per la libertà di parola. C’è in giro un conformismo a confronto del quale quello dell’epoca vittoriana era poco più che un raffreddore.

– Un caffè?

– Di già? Arriviamo almeno a quella pasticceria napoletana che so io.

La casa di Vittorio Feltri è in centro ma non è in centro. Senza traffico (e quando capita) se guidi veloce e in sicurezza (altra libertà ormai vietata) puoi arrivare in via Negri, zona Cordusio, in meno di 20 minuti. Lì c’è - o meglio c’era, l’hanno trasferita da poco in un luogo mi dicono lugubre - la storica e marmorea sede di uno dei quotidiani che Feltri ha diretto più volte, il Giornale, dove di nuovo oggi lavora in qualità di direttore editoriale e di titolare della «Stanza di Feltri», una risposta al giorno alla lettera più stimolante tra quelle inviate dai lettori.

Che bella, che splendida dimora. A Milano ci sono due tipi di abitazioni: l’attico Ferragni-Fedez a Citylife, tutto acciaio e vetro e cemento, e stando al gossip più fresco e croccante persino Fedez sembra esserne fuggito, e questa, che pare prelevata direttamente dalla campagna inglese. Il resto son palazzi. Pur nobili, per carità.

All’ingresso, in cima a qualche gradino, ci accoglie la domestica e immediatamente dietro arriva Feltri, impeccabile e divertito come una pagina di Giuseppe Rovani.

Ci trasferiamo nel salotto del primo piano. Quasi un circolo ippico, tra boiserie, quadri con cavalieri e cani, poltrone in pelle, fotografie in cornici d’argento. E sigarette di quelle fini, non poche, accese senza rimorsi.

– E così arrivate dal Ticino. Anche io ho una parte svizzera: mio nonno, che non ho conosciuto, era un perito chimico che lavorava in una cereria a Bergamo. Lo chiamarono nel canton San Gallo. Si stabilì lì, ebbe dei figli, tra cui mia madre, che ebbe un’educazione molto elvetica e questo si sentiva...

– Mi scusi, in cosa consiste un’educazione «molto elvetica»?

– Ah... (ride affettuosamente)... era una rompicoglioni!

– Mi permetta: come tanti fautori del politicamente corretto.

– Dio ce ne scampi!

– Da dove iniziamo? Nel suo libro ce n’è per tutti i gusti. Forse dagli omosessuali?

– Adesso li chiamano così, che però è un termine medico. Oppure gay, che è una parola inglese. Pederasti non si usa più, chissà perché... Se usi frocio, qualcuno si scandalizza, senza motivo, ovviamente. Insomma, non li puoi più definire. Non è un bel risultato, contando che a Milano oggi gh’inn püssée cül che ciapp.

– Paolo Isotta suggerì un’altra parola.

– Lo racconto nel libro. Isotta era un grande musicologo e scrittore, e mio carissimo amico.

– Preferisco Piero Buscaroli...

– Un altro grande. Sul politicamente corretto sono convinto che Piero la penserebbe come me. L’ho conosciuto bene, ha lavorato per me, abbiamo fraternizzato. L’italiano di Buscaroli è perfetto. Oggi avrebbe continuato a scrivere come sapeva fare. Lui, Isotta...

– ...ed Enzo Bettiza...

– Bettiza, certamente... ecco... non erano giornalisti che si sarebbero fatti impressionare da quei quattro deficienti che oggi introducono queste follie.

– Si diceva di Isotta...

– Durante un’intervista, se non ricordo male alla RAI, gli chiesero: «Lei è gay?». E lui, napoletano, rispose: «Io non so’ gay, io so’ ricchione!». Ci rido ancora. Oggi, invece, se vuoi insultare qualcuno basta che gli dai dell’omofobo.

– Per tacer della vexata quaestio di «negro».

– C’è molta ignoranza. Negro viene dal latino niger, non si capisce dov’è il problema. Mi pare che il latino abbia dato origine al volgare, che parliamo ancora. Chi non conosce il latino dà alla parola negro un valenza negativa, invece è semplicemente un valore lessicale. Combatterlo è da stolti. Ma tanto il latino non lo studia piu nessuno...

– C’è chi trova negro sprezzante.

– Il disprezzo lo sentono solo coloro che non conoscono la storia della nostra lingua.

– Però molta gente la conosce sempre di più e meglio. C’è, come si dice con una orrenda parola, più «alfabetizzazione».

– Lei parla di una cultura che in realtà è una subcultura.

– Lei è un provocatore.

– Ma va’... Cerco di essere spontaneo, di essere me stesso, di usare una lingua che sia «volgare», non nel senso di maleducata ma che rispetti i canoni e le tradizioni dell’italiano. E se mi capita di scrivere un termine in dialetto, lo lascio, perché i dialetti informano molto più delle mode. In Fascisti della parola non esagero, non provoco, faccio semplicemente notare che il linguaggio è stato imbastardito. E non è una mutazione, ma una forzatura.

– Imposta da chi?

– È stata una caduta molto rapida. D’altra parte le cattive abitudini si radicano in fretta e per la maggioranza, che è gregge, è più facile cedere a queste mode che studiare. Credo che tutto parta dalla sinistra, che ha ereditato la mentalità comunista, non in toto ma in parte. Siccome la sinistra non ha più un programma, non ha più idee, s’è gettata su queste proposte... estetiche. E così stiamo diventando più conformisti nel modo di parlare, e tradiamo le nostre tradizioni, che vengono trasmesse attraverso la parola. Se tu limiti la parola, sfasci tutto. Come nei diritti civili. Ora è vietato pronunciare un’affermazione semplice e chiara come «sono contrario all’aborto». Ma perché?

– Il politicamente corretto è una moda?

– Sì. Andrà avanti ancora per un po’, poi si scocceranno. Almeno me lo auguro. Purtroppo noi siamo influenzati dalla moda, nel vestiario, nelle auto... Le mode sono talmente seguite che si trasformano presto in conformismo. Sono per certi versi irrazionali, perché sono contagiose. Come alcune malattie che se si affermano diventano poi difficili da contenere in poco tempo.

– Dal punto di vista lessicale stiamo vivendo una situazione analoga?

– Non c’è dubbio. Le mode vanno verso il basso. Alla fine attecchiscono presso persone che non hanno un livello culturale che consenta loro di capire quello che dicono e fanno, ma che vogliono essere à la page.

– Ma sono i giornalisti i primi seguaci di questa moda!

– Giornali e giornalisti, che sono tutti moribondi, invece di badare al politicamente corretto pensino a come rendere appetibile la carta stampata, dal momento che non lo è più.

– Perché ha scritto Fascisti della parola?

– Perché le mode mi stanno sui maroni. L’ho fatto per divertimento, per mettere in risalto l’assurdità di queste forzature linguistiche prive di qualsiasi senso. Non si può fare la guerra al dizionario. Basta prendere il Devoto-Oli, lì ci sono i termini giusti, che fanno parte della nostra lingua, tutto il resto è storpiatura, è forzatura.

– Quindi... Genitore 1 e genitore 2?

– Si può essere così imbecilli da proporre una assurdità simile, senza specificare chi è la mamma e chi è il papà? Genitore 1 e genitore 2 è una estremizzazione del politicamente corretto, una forzatura comica. Sono imposizioni davvero assurde, mi stupisco di come molti sposino questa tendenza... Sono cose che non stanno né in cielo né in terra.

Squilla il cellulare di Feltri e lui:

– Sarà qualche rompicoglioni.

Risponde.

– Sto facendo una intervista, ci sentiamo dopo...

È il momento delle foto. Restando sullo stesso piano ci spostiamo in una delle due cabine armadio della casa. Feltri tiene ogni mese su Arbiter - l’egregio mensile italiano dedicato al lusso, un vero caso di studio nell’editoria dei periodici - la rubrica «L’uomo libero».

– Qui c’è l’invernale o l’estivo?

– L’estivo è di sotto.

– È vero che d’inverno ci si può vestire molto meglio? I tessuti sono più preziosi, i tagli sartoriali più evocativi, si possono indossare mantelli e tabarri...

– (ride)... me la cavo bene anche d’estate!

– Le è dispiaciuto vendere la villa a Bergamo per venire qui?

– L’ho venduta a una influencer, pensi. Sono sempre vissuto a Milano. Fino al venerdì sera stavo qui, poi tornavo a Bergamo, città bellissima, molto svizzera. Avevo una casa molto grande. A un certo punto non volevo lasciare là mia moglie, che non è giovane, sempre sola. Si fosse sentita male di notte... Comunque non riesco ad abitare in un condominio. Qui ho il giardino, amo i gatti, ne ho tre.

– Il mitico Ciccio, e...?

– Rosso e Bianca, che è tutta nera. Tutti sterilizzati.

Feltri ci ha accompagnato nella cabina armadio sigaretta in mano. Un po’ di cenere cade sul tappeto. Gabriele «Finzi» Putzu aggiusta le luci, suggerisce alcune pose.

Un gentiluomo nel suo guardaroba.

– Direttore, sa che dire la «mia» ragazza o «mia» moglie tra un po’ sarà una sorta di istigazione al femminicidio?

– Si rende conto della stupidità? Purtroppo sono fenomeni striscianti. Continueremo così per un bel po’ fino a quando non ci stancheremo di dire stupidaggini e ne diremo altre.

Ci spostiamo nelle stanze accanto. Il salotto. Le scale, colme di quadri. Di nuovo il pianterreno, dov’è una sala da pranzo stile «vecchia Milano», ben riscaldata. C’è sua moglie. Arriva anche Ciccio. E pure la domestica. Ci si saluta.

– Mi pare sia andata bene.

– Massì, Gabri. Qualcosa abbiamo. Le foto di sicuro.

In auto, di rientro in Ticino, sfoglio il materiale che avevo preparato e che non ho utilizzato. È sempre la stessa storia da secoli, vecchia come il mondo, la stessa tensione tra chi vuole omologare e chi vuole esplorare. Tra gli appunti, questa riflessione di J. G. Hamann: «Una testa che pensa a proprie spese sconfina sempre, anche nel linguaggio. Un autore al soldo di una società approva le parole che gli sono state prescritte come un poeta mercenario che compone versi in bouts-rimés, in rime obbligate, che lo conducono sulle tracce di quei pensieri e di quelle opinioni che sono le più adatte».

* Gabriele «Finzi» Putzu è il photo editor del CdT. Non ha mica il doppio cognome: il «Finzi» l’abbiamo aggiunto noi colleghi in omaggio alla sua bravura, ispirandoci al talento di quell’altro ticinese, quel Daniele Finzi Pasca che ha portato un po’ di Lugano e di onirica meraviglia nei teatri del mondo.

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