Cultura

«La storia serve a combattere il provincialismo del nostro Io»

A tu per tu con lo storico e saggista Carlo Ginzburg
Carlo Ginzburg, 83 anni, a Locarno prima di partecipare a all’evento primaverile L’immagine e la parola del Locarno Film Festival.
Andrea Bertagni
Andrea Bertagni
26.03.2023 19:30

«La storia serve a combattere il provincialismo del nostro Io». Carlo Ginzburg, storico e saggista italiano, ma «anche ebreo e ateo» descrive così l’ambito della sua professione. Un’attività ormai lunga diversi decenni che l’ha portato a scrivere decine di saggi e a riscrivere la storiografia.

Lo scorso 11 marzo Lei era a Locarno all’evento primaverile del Locarno Film Festival, L’immagine e la parola. Perché ci è andato?
«Per curiosità. Nel corso della serata è stato proiettato il film Bad Luck Banging or Loony Porn di Radu Jude. Jude era interessato che io ci fossi, io ero incuriosito dal suo interesse. Ho visto il film e ho pensato che potesse esserci un dialogo imprevedibile e ho accettato».

Quali spunti ha trovato in questo film che ha vinto l’Orso d’oro per il miglior film al Festival di Berlino 2021?
«Prima che accettassi con Radu Jude ho avuto un rapido scambio di email sul montaggio del film, perché in effetti il montaggio per me costituisce anche un modello per la scrittura. Sull’analogia tra scrittura e montaggio effettivamente ho anche ragionato».

E dove l’hanno portata queste riflessioni?
«Io sono ossessionato dalla punteggiatura. Virgola, punto e virgola, punto, punto a capo e bianco. La possibilità di mettere il bianco l’ ho sempre sfruttata fin dal primo scritto che ho pubblicato».

Perché è così interessato al «bianco»?
«Un giorno sono stato invitato a Gerusalemme per tenere delle conferenze. In una di queste ho scelto come tema il «blanc» che a un certo punto compare ne L’éducation sentimentale di Gustave Flaubert. Romanzo che ho provato a leggere storicamente, anche se era un po’ una scommessa tutt’altro che ovvia. Ma a me piace rischiare».

E poi cosa è successo?
«Il protagonista del romanzo, Frédéric Moreau si trova a Parigi durante le barricate e dall’altra parte della barricata vede una guardia che lo punta con il fucile. Lo vede e Flaubert scrive C’etait Sénécal e poi arriva questo bianco, questo stacco. Moreau e Sénécal erano amici, anche Sénécal era un rivoluzionario, ma poi si erano persi di vista. Vederlo dall’altra parte della barricata come guardia nazionale per Moreau era un qualcosa di stupefacente, quindi al lettore viene comunicato questo stupore Ho ragionato su questo bianco, sul come Flaubert potesse aver pensato a una strategia del genere, e quindi di fatto ho ragionato sul montaggio».

La mia passione per il cinema è legata all’infanzia e all’adolescenza, poi ho smesso di vedere film

Quindi il cinema è una sua passione?
«La mia passione per il cinema è legata all’infanzia e all’adolescenza, poi ho smesso di vedere film. Mi ricordo che 10 anni lessi un libro che avevo trovato in casa. Mia madre (Natalia Ginzburg, n.d.a.) lavorava da Einaudi e quindi in casa avevamo molti libri, che arrivano dalla casa editrice. Ebbene questo libro era la traduzione degli scritti sul cinema di Sergej Michajlovič Ėjzenštein. Non ci capii quasi nulla, ma mi appassionò molto. Anni dopo vidi i suoi film e lessi anche un bellissimo saggio sull’uso del suo primo piano, che per me è stato importantissimo. Quindi si può dire che l’idea del montaggio su cui ho ragionato è legata al blanc di Flaubert filtrato dal cinema di Ėjzenštein. In particolare su come Flaubert è arrivato al blanc e come possono aver reagito i suoi lettori e il contesto».

Contestualizzare non è il metodo dello storico?
«Certamente, anche se questa faccenda del blanc di Flaubert penso che pochi storici avrebbero pensato di prenderla come tema di riflessione storica. Ma l’idea di reagire a delle sfide talvolta casuali fa parte del mio mestiere. Trovare quello che si cerca, non è abbastanza. Bisogna essere messi di fronte all’imprevisto, all’inatteso. Anche su questo ho scritto e ragionato molto».

Sta dicendo che lascia sempre una porta aperta all’imprevisto?
«Io sono costantemente alla ricerca dell’imprevisto. In realtà sull’idea di produrre il caso è qualcosa su cui ho scritto e su cui continuo a ragionare».

Può fare un esempio?
«Molti anni fa con il mio amico Adriano Prosperi, con cui avevo studiato alla Scuola normale di Pisa, decidemmo di fare un seminario assieme, perché scoprimmo di insegnare tutti e due a Bologna, in due università vicine. Il seminario era sopra un testo di carattere religioso pubblicato a Venezia nel 1500. Un testo considerato eretico e perciò quasi completamente distrutto a parte un esemplare ritrovato nel 1800 a Cambrigde».

Di che testo si trattava?
«Si chiama Trattato utilissimo del beneficio di Gesù Cristo. Facemmo il seminario e scrivemmo insieme anche un libro, Giochi di pazienza. La cosa curiosa è che questo libro ha fornito lo spunto al primo romanzo dei Wu Ming, Q, e quindi da parte dei Wu Ming ci fu una proposta di fare una presentazione comune sul nostro libro e sul loro alla Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna».

Orion era il nome del software della biblioteca dell’UCLA dove insegnavo. A un certo punto mi viene l’idea di prendere una parola a caso, metterla sul catalogo elettronico e vedere cosa saltava fuori

E poi cosa successe?
«Accadde che i bibliotecari dell’Archiginnasio trovarono un secondo esemplare del beneficio di Cristo alla Herzog August Bibliothekche di Wolfenbüttel, che è una delle biblioteche più famose del mondo. A Wolfenbüttel ce l’avevano sotto il naso e non se n’erano mai accorti».

Non è stata comunque l’unica «produzione del caso» per lei, è corretto?
«Esatto, un altro esempio lo si può trovare nel saggio Conversazione con Orion, uscito nell’ultima raccolta che ho pubblicato con Adelphi che si chiama La lettera uccide. Orion era il nome del software della biblioteca dell’UCLA dove insegnavo. A un certo punto mi viene l’idea di prendere una parola a caso, metterla sul catalogo elettronico e vedere cosa saltava fuori».

E cosa saltò fuori?
«Una costellazione completamente casuale a partire dalla quale è scattata la mia interazione, l’interazione del ricercatore. Questo è un esempio di come quello che mi interessa può diventare una pista di ricerca a partire però da qualcosa di inatteso».

E come sono andate invece le cose per un altro saggio, sempre prodotto dal caso, intitolato La latitudine, gli schiavi, la Bibbia?
«A un certo punto ho deciso di scrivere un saggio sul Traité de métaphysique di Voltaire, un testo postumo in cui Voltaire, in un capitolo racconta di un essere che arriva dallo spazio in Sudafrica e vede gli animali e un animale con i capelli lanosi. È un riferimento ovviamente razzista di Voltaire, quest’ultimo. Bene, prendo questo paragrafo e controllo tutte le parole. Inizio dalla prima riga. Si parla della Cafrerie, che era il nome di allora del Sudafrica. Lo cerco sul catalogo elettronico e non esce niente. Così provo Cafre. Escono sette titoli e guardo i più antichi».

Perché i più antichi?
«Perché scatta l’interazione del ricercatore. Un altro poteva scegliere quelli più recenti. Questi titoli sono di un certo Pury che all’inizio del 1700 scrive in francese due scritti indirizzati alla compagnie delle Indie di Amsterdam in cui parla di un progetto di colonizzazione dei Pay de Cafre e della regione che allora non era ancora chiamata Australia, come oggi. Per caso si intreccia la produzione del caso con un altro caso, questi scritti non erano in una sezione di libri rari, ma qualcuno li avevi fotocopiati ed erano quindi negli scaffali aperti della biblioteca. Così li trovo e inizio a guardare».

«L’elemento inaspettato è sicuramente qualcosa che caratterizza anche la guerra in Ucraina, ecco perché trovare una soluzione è difficilissimo

E poi?
«E poi scopro che quella dei Pury è una famiglia che esiste ancora ed è importantissima. Il Pury che cercavo io era nato a Neuchâtel. Così sono andato a Neuchâtel per cercare nell’archivio del comune. Scendo dal treno e vedo una statua...».

Era lui?
«No, il fratello che aveva fatto un sacco di soldi con la tratta di schiavi dal Brasile e poi aveva dato questi soldi alla città di Neuchâtel. Tanto che oggi questo Pury è ancora una figura centrale per la città. Io ho comunque seguito il fratello, perchè ero interessato a capire la figura di questo geografo e colonizzatore che ha in testa un parallelo con la Terra Santa. Non a caso andrà in South Carolina e fonderà una città, Purrysburg, che oggi non esiste più. Sono andato con mia moglie a cercarla. Non si vede più niente, sono rimasti solo frammenti di tombe...».

Tombe e morte, ma secondo lei c’è del caso anche nella guerra in Ucraina?
«L’elemento inaspettato è sicuramente qualcosa che caratterizza tutta la situazione, ecco perché trovare una soluzione è difficilissimo».

Nel libro Il formaggio e i vermi lei parla di sfida all’autorità. C’è ancora questo senso di sfida nella società di oggi?
«Autorità e sfida esistono ancora entrambe. Quando il Governo di Giorgia Meloni ha avuto l’idea sfacciata di andare a Cutro e si è trovato di fronte il lancio di peluche da parte dei manifestanti abbiamo assistito a una sfida all’autorità, anche se simbolica. La sfida simbolica è comunque significativa per produrre realtà».

È importante sfidare? E perché?
«Bisogna decidere caso per caso. Qualcuno non sarebbe d’accordo, qualcuno potrebbe dire che l’autorità andrebbe sfidata sempre e comunque, in quanto autorità indipendentemente dalle sue caratteristiche. Io questo non lo credo. Ragionando caso per caso in certi casi l’autorità va sfidata. Questa tragedia dei migranti che hanno perso la vita a pochi metri dalle coste di Cutro ha dei colpevoli e deve essere sottolineata. L’idea di sfidare l’autorità con dei peluche ha quindi un senso».

Abbiamo la tendenza a creare un mondo che ci è familiare e che riflette le nostre aspettative

Domanda a bruciapelo. Ma a cosa serve la storia?
«Serve a combattere il provincialismo del nostro Io».

Cosa intende?
«Abbiamo la tendenza a creare un mondo che ci è familiare e che riflette le nostre aspettative. Questa strategia inconscia di addomesticamento della realtà va combattuta perché la realtà non si lascia addomesticare. Anzi, se ne infischia di noi. Il problema è come fare a conoscere la realtà. Questo è un problema che non possiamo dare per scontato».

Lei che risposte si è dato?
«Io credo che da questo punta di vista la ricerca storica anche grazie alle proprie caratteristiche specifiche può aiutare da un punto di vista generale. Vorrei citare il mio libro Il filo e le tracce che è una raccolta di saggi. Un libro che ha un sottotitolo: Vero falso finto, senza virgole. Alla fine dell’introduzione io dico che nella nostra vita quotidiana siamo quotidianamente coinvolti nel distinguere tra vero falso finto. È un qualcosa con cui dobbiamo fare i conti continuamente».

Guardare la realtà da più punti di vista può aiutare?
«C’è una figura inventata dalla Chiesa cattolica all’inizio del Seicento che interveniva nel corso dei processi di canonizzazione, l’avvocato del diavolo. Oggi non c’è più questa figura, però simbolicamente è una figura interessantissima. Noi dovremmo introiettare un dialogo con l’avvocato del diavolo che ci mette in difficoltà. Ho scritto un saggio sull’ebreo come avvocato del diavolo. Fra Sei-Settecento alcuni testi inglesi che ho studiato riportavano dei dialoghi fittizi, in cui un ebreo formulava delle critiche aggressive nei confronti ad esempio dei miracoli di Gesù. Ora è chiaro che questa è una strategia comunicativa. L’autore non vuole esporsi dicendo che queste sono le sue posizioni ma le attribuisce all’ebreo. L’idea è comunque quella che l’avvocato del diavolo può essere una sorta di porta parola di idee nascoste, di idee che bisogna stare a sentire per non sedersi pacificamente sulle nostre certezze».

Lei riesce a fare questo nella vita di tutti i giorni?
«Temo di no, ma mi piacerebbe. Dovrebbero comunque rispondere le persone che mi stanno intorno».

In questo articolo: