Ticino

L'altra faccia della migrazione

Fuggiti giovanissimi dall’Afghanistan per sottrarsi ai talebani, oggi dopo alcune difficoltà Ali e i suoi amici lavorano
Dal suo arrivo, nel 2017, Ramazan ha cercato subito di integrarsi e di ridurre le distanze culturali.
Andrea Bertagni
Andrea Bertagni
19.03.2023 15:41

Ali Mardan, Mujtaba e Ramazan corrono veloci con il pallone tra i piedi. È domenica e i tre ragazzi stanno giocando a calcio con il Real Cugnasco, una squadra amatoriale che fa dell’integrazione una delle sue bandiere. Giocano tutti e tre in attacco Ali, Mujtaba e Ramazan e sono amici. A unirli non è solo lo sport, ma anche il Paese di provenienza, l’Afghanistan, dal quale sono scappati per sfuggire ai Talebani. «Sono in Svizzera da 7 anni e oggi lavoro come magazziniere al 100% - dice Ali Mardan -. In Afghanistan facevo il pastore, ma vorrei continuare a studiare e un giorno diventare un manager!». Da pastore a manager è un salto che cambia la vita, ma d’altronde Ali di salti ne ha già fatti tanti. È fuggito dal suo Paese a 17 anni, da solo. Percorrendo un viaggio della speranza che per molti, secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni si è rivelato fatale. Visto che a morire, negli ultimi dieci anni, nel Mediterrano, prima di raggiungere l’Europa coi barconi dall’Africa e dall’Asia sarebbero stati 26mila profughi. Una strage.

La rete della porta si gonfia. A segnare è stato Ramazan che riceve i complimenti dai suoi compagni di squadra. «Io sono arrivato in Ticino nel 2017 - spiega il goleador prendendosi una pausa - Ho subito cercato di integrarmi per ridurre le distanze culturali e sono stato accolto benissimo. Ho fatto teatro, gioco a calcio, oggi sono all’ultimo anno dell’apprendistato di decoratore d’interni. Cosa immagino per il mio futuro? Sinceramente non lo so. Un giorno mi piacerebbe tornare in Afghanistan per formare una famiglia».

Oggi Ramazan ha un permesso F, quello per i rifugiati ammessi provvisoriamente. Non è da solo. Secondo la Segreteria di Stato per la migrazione (SEM) sono circa 400 oggi in Ticino gli afgani ad averne uno. Sono i più numerosi insieme agli eritrei, quasi 500 permessi, e i siriani, circa 300. Il permesso F ha validità 12 mesi, può essere rinnovato di anno e in anno e permette ai rifugiati di lavorare. Un’occasione che i tre amici afgani hanno colto al volo. Anche se all’inizio non è stato facile. «Non capivo la lingua», precisa Ramazan. «Io invece prima di fare il magazziniere volevo fare il meccanico - chiarisce Ali - ho fatto tanti stage ma anche io non capivo l’italiano, è stata dura».

Prima la lingua, poi il lavoro

Dopo la fuga, il viaggio e l’arrivo in una Nazione pronta all’accoglienza, la lingua è un’altra delle àncore a cui aggrapparsi per chi scappa da un Paese in guerra od ostile. A confermarlo è anche Christina Gräni, che lavora per Powercoders, un’azienda fondata nel 2017 da un bernese, Christian Hirsig, che ha lo scopo di formare e far assumere i rifugiati in Svizzera nel campo dell’informatica. «La lingua è un must - sottolinea Gräni -. Un buon inglese e una certa conoscenza della lingua locale sono essenziali per essere assunti». Essenziale ma non sufficiente. Perché se è vero, come è vero, «che finora quasi 250 partecipanti hanno completato il nostro programma principale e di questi il 60% è stato assunto in modo permanente», annota Gräni, è altresì sicuro che prima di arrivare in una grande banca, come è capitato a Zia Enfasi, afgano entrato nel 2019 in UBS e poi assunto a tempo indeterminato, tutti devono rimboccarsi le maniche.

«I partecipanti selezionati - annota Gräni - devono completare un «bootcamp» di tre mesi, durante il quale vengono preparati per il loro prossimo stage e vengono istruiti in uno dei settori offerti da Powercoders, come sviluppo software, data analytics, supporto IT, cyber security e molti altri. Perché l’offerta dipende anche fortemente dalla domanda del mercato del lavoro». Al termine della formazione, i partecipanti completano poi uno stage di 6-12 mesi in una delle aziende partner. «Finora hanno collaborato con noi circa 140 aziende in Svizzera, come Swisscom, UBS, Zurich Insurance, ABB, T-Systems, SIX, Migros, ma anche medie imprese e start-up», fa sapere Gräni.

«Non posso tornare a casa»

La partita finisce. È ora di tornare a casa. Ali Mardan, Mujtaba e Ramazan salutano e inforcano le biciclette. L’ultimo a far scattare i pedali è Mujtaba, un nome che in arabo vuol dire Il Prescelto. «In Afghanistan ho fatto tanti mestieri - racconta - Sono arrivato in Ticino 6 anni fa, quando ne avevo 20. Oggi sto facendo l’apprendistato come disegnatore metalcostruttore. Mi trovo bene in Svizzera anche se sono da solo e non posso tornare nel mio Paese. Spero che in futuro la situazione a casa mia possa tornare tranquilla». Chi è scappato dai talebani come Ali Mardan, Mujtaba e Ramazan sa benissimo che conviverci è impossibile e che rimanere avrebbe significato imboccare un sentiero senza uscita per dei ragazzi come loro. Ecco perché sull’argomento preferiscono non esprimersi. Almeno a parole. A parlare sono però le loro espressioni. Bastano quelle a dipingere uno degli inferni dal quale sono scappati, cercando rifugio in Svizzera.

«Ho rischiato più volte di morire»

«Ho rischiato più volte di morire». Ali Ramezani dice queste parole velocemente, come a scacciarle via. Quello che non può fare è cancellare i ricordi. Quelli non se possono andare, purtroppo. Anche lui è in bicicletta, ma oggi non ha giocato. «Sono arrivato in Ticino nel 2014, avevo 18 anni», ricorda, prima di fermarsi un attimo. «I miei genitori oggi sono in Iran, Paese nel quale siamo scappati dall’Afghanistan quando ero molto piccolo». In Iran Ali frequenta le scuole e inizia a fare il tapezziere. La professione gli piace, così continua a formarsi, fino a prendere il diploma di sarto. Le cose però a un certo punto prendono una brutta piega e Ali arriva in Turchia, dove rimane per due mesi. L’idea è quella di non fermarsi, di raggiungere l’Europa. Così entra in Grecia, una delle tappe principali per chi vuole tentare di attraversare il Mediterraneo e raggiungere le coste italiane. «In Grecia ci sono rimasto circa un anno - racconta - un anno in cui ho lavorato per mettere da parte i soldi che mi sono serviti per pagare il viaggio».

Aspettando un permesso

Niente è sicuro, tutto è precario e per Ali arriva il momento che ha tanto atteso e per il quale ha lavorato per un anno, da minorenne. È arrivato il momento di imbarcarsi, di attraversare il mare. «Era una nave container molto grande. Ho pagato per nascondermi in un camion. Sapevo di rischiare di morire».

Il racconto si interrompe. Gli amici lo chiamano. Anche Ali Ramezani deve andare. Prima però il suo viso si trasforma in un sorriso. «Oggi sono felice - chiarisce - ho un lavoro a tempo indeterminato come autista di mezzi pesanti e il mio sogno è quello di diventare un autista internazionale».

Dalla pancia di un TIR al suo comando. Le rivincite nella vita, a volte, passano anche da qui. Dal trasformare un incubo in un sogno. Senza mai mollare. Neanche per un istante. Anche se la strada non è mai completamente in discesa. «Anche se lavoro a tempo indeterminato ormai da due anni ho ancora il permesso F - segnala Ali Ramezani - Ho fatto richiesta per il permesso B ma sono 9 mesi che aspetto». Ali Mardan, che si era allontanato un momento, fa marcia indietro e si avvicina. «Anche io ho finito l’apprendistato due anni fa - dice -. Sette mesi fa ho fatto richiesta del permesso B, ma sto ancora aspettando». Perché?, viene da chiedersi, guardando il gruppo di amici che si allontana. Le borse a tracolla. I capelli al vento. E un futuro ancora da scrivere.

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