L’editoriale

Correre la gara

Siamo sempre in competizione, che sia con gli altri o con noi stessi. Ma a cosa serve competere? Quali sono gli aspetti positivi e quelli negativi di una vita trascorsa a gareggiare?
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Antonio Paolillo
Antonio Paolillo
25.11.2021 08:00

Sport, scuola, carriera, amore, gioco, sopravvivenza. Ogni aspetto dell’esistenza si basa su un sistema competitivo. Dopotutto, la stessa vita comincia in seguito ad una folle gara.

È molto difficile, infatti, riuscire a scovare qualcosa che non ci ponga – neanche idealmente o ipoteticamente – a confronto con l’altrui, tanto che, se anche finalmente ci si riesce a liberare di esso, l’io si sdoppia e ne crea uno fittizio, una copia di sé stessi, con il quale entrare in competizione. Probabilmente ciò accade perché – essendo «animali sociali», come dice il buon vecchio Aristotele - siamo inseriti in un certo contesto, in cui partiamo da una certa condizione, con i mezzi che essa ci garantisce, e con lo scopo di mantenerla o migliorarla. Siamo quindi «costretti» a procurarci mezzi e risorse per tale fine, entrando in competizione (quasi involontariamente) con tutti gli altri che al tempo stesso stanno correndo verso lo stesso traguardo. Così i voti a scuola, il guadagno, il tempo di una gara o il risultato di una partita – giusto per fare degli esempi – diventano gli strumenti per affermare la propria posizione all’interno della società.

Soprattutto nello sport agonistico si vede palesemente il ruolo della competizione, dopotutto esso trova la sua essenza proprio nell’essere in sé una competizione tra attori diversi: se non ci fosse una coppa, un premio in denaro e il titolo di «Campione del mondo» per cui concorrere, che senso avrebbe giocare i Mondiali di calcio? Paradossalmente, se nelle altre situazioni della vita a volte competere diventa un peso eccessivo, nello sport è proprio la benzina che spinge gli atleti a gareggiare e gli spettatori a guardare le gare.

Riportando il focus sulla figura dello studente, da sempre missione di L’universo, bisogna notare come essa, dalle elementari fino all’università, è inserita in una catena di dimostrazione di competenze, che, attraverso l’ottenimento di un voto, costruisce un profilo rappresentativo. Cosa significa? Che più il voto è alto, più lo/la studente/studentessa ha dimostrato competenza nell’ambito di studio. I vari livelli di competenza entrano poi in competizione al fine di raggiungere l’obiettivo di ottenere un posto di lavoro o di crearne uno da sé.

Se da un lato, però, l’assegnazione di un voto certifica il grado di acquisizione di certe competenze, dall’altro ci si può chiedere se esso sia esaustivo nella profilazione di un/una studente/studentessa, il ché non è sempre del tutto detto: si può facilmente dare il caso che qualcuno/a con un voto di laurea più basso abbia delle caratteristiche personali che lo/la rendono una figura più interessante di chi ha un voto più alto.

Nasce quindi il bisogno di identificare quella che è una competizione sana e distinguerla da una malsana. Essa ha il pregio di spingere al migliorare sé stessi, alla ricerca di affermazione, al mettersi in gioco e ad affrontare con grinta le sfide, ma dall’altro lato può causare una certa quantità di stress e di insoddisfazione davanti alla non riuscita o al mancato ottenimento di certi risultati.

Bisogna tenere a mente che una gara si può vincere e si può perdere, l’importante è averla corsa.