Storia

Katharine Graham, vite e incontri della dama dell’editoria americana

I vent’anni dalla scomparsa della signora del Washington Post, tra la politica e la Storia. Personaggi e presidenti visti dagli occhi di una giornalista-manager
© MrsGraham
Amedeo Gasparini
14.07.2021 09:33

Per sua stessa ammissione, Katharine Graham, mancata il 17 luglio di vent’anni fa, ha vissuto una vita straordinaria. Ai vertici del giornalismo e dell’editoria, nonché indirettamente della politica americana per diversi decenni, la signora era rispettata ed apprezzata anche degli avversari del The Washington Post che editava. Negli anni seppe farsi strada in un’America tra Vietnam e Maccartismo, tensioni razziali e crisi petrolifere. Graham ha visto tutto il secondo Novecento e ha interagito con la Storia, facendola con il giornale che popolarizzò in maniera incrementale e incisiva. Nella sua autobiografia, Personal History, Graham ricorda le avventure di una vita. «Volevo una grande famiglia, ma allo stesso tempo volevo continuare la mia vita come un individuo», scrisse. Nata nel 1917 a New York, era figlia di Eugene Meyer – di discendenza ebraica in Alsazia e Lorena –, imprenditore prima nel settore del rame, poi in quello dell’automobile, dunque del chimico. Plurimilionario ben prima della nascita della figlia, in seguito venne nominato governatore dello Stock Exchange da Herbert Hoover, quindi capo della World Bank da Harry Truman.

“Kay” era orgogliosa della sua famiglia: molto legata ai quattro fratelli, riconobbe di essere cresciuta nel lusso. Presto i Meyer si trasferirono a Washington, sulla Massachusetts Avenue. Scuola alla Montessori, piano piano Katharine iniziò ad interessarsi al giornalismo: entrata al Tatler decise di scrivere a proposito di tematiche sociali. Sebbene i Meyer fossero filo-repubblicani, Katharine era fan di Franklin Delano Roosevelt. Nel 1934 il padre comprò il Post. I Meyer vollero dare un nuovo orizzonte al giornale: la capitale americana meritava un grande quotidiano. Fu così che la giovane Katharine entrò nel mondo dell’editoria; i lavoretti estivi erano una pacchia, ma poi arrivarono gli anni universitari, spesi a Chicago – «non avevo mai incontrato dei veri comunisti prima di arrivare a Chicago», scrisse. Trasferitasi a San Francisco, il primo settembre 1939 era alla Casa Bianca: come giornalista non accreditata accompagnò il giornalista del Post, Barnet Nover a sentire la conferenza stampa di FDR sullo scoppio della guerra in Europa. È nella realtà del giornale di famiglia che Katharine conobbe l’uomo della sua vita, Philip Graham, «uomo brillante, carismatico, affascinante».

Da sempre appassionato di politica – anche lui adorava FDR – “Phil” voleva sposare Kay alla New York City Hall, alla presenza di Fiorello La Guardia. Matrimonio a Mount Kisco il 5 giugno 1940; la neo-Signora Graham ammirava il marito. Dal canto suo, Phil andava d’accordo con il suocero; lo ascoltava molto, ma tra pneumonia e tubercolosi, non riuscì a coltivare le relazioni sociali come avrebbe desiderato. Assorbito negli ambienti del Post proprio per volere del suocero, presto divenne editore del quotidiano. Nel frattempo, Katharine si divideva tra la crescita dei figli e la collaborazione come editorialista. Il Post venne svecchiato ulteriormente quando Graham assunse molti giovani – tra cui Ben Bradlee – e dopo la Seconda Guerra Mondiale proiettò il quotidiano su scala nazionale. Nel 1948 il Post vendeva circa centottantamila copie: un successo. Gli anni di Joseph McCarthy inasprirono le tensioni internazionali tra Stati Uniti e Unione Sovietica all’interno della realtà domestica americana: il Post si oppose alle sparate anticomuniste del controverso politico (e del Partito) repubblicano, seppure Phil fosse un fervente sostenitore di Dwight Eisenhower, come d’altronde lo era Walter Lippmann, star del giornalismo dell’epoca e amico dei Graham. In seguito, Phil iniziò a corteggiare Lyndon B. Johnson, capo della maggioranza democratica al Congresso.

Gli anni Sessanta furono politicamente interessanti per i Graham: i legami con John Fitzgerald Kennedy e Robert McNamara – compagno di università del cugino di Katharine, Walter Haas – furono fruttuosi, ma al contempo la depressione di cui soffriva Phil catturò molte energie della moglie. Intollerante e offensivo, bevitore e maniaco, il boss del Post si suicidò nell’agosto 1963; tre mesi prima, aveva definito il giornalismo come “first rough draft of history”. Al funerale, celebrato alla Washington National Cathedral, c’era anche JFK; per l’occasione, Jacqueline Kennedy scrisse a Katharine una lettera di otto pagine. La scomparsa del marito lasciò la signora da sola, ma le offrì l’occasione di emergere come dama dell’editoria statunitense. Succeduta al marito alla guida della company di famiglia – investitura ufficiale nel 1969 come publisher – era l’unica donna in un ambiente a maggioranza maschile. Lippmann l’aiutò a farsi strada nel mondo del management giornalistico, tra CdA e finanza, politica e affari. Il 22 novembre 1963 era a pranzo con gli amici Arthur Schlesinger e John Kenneth Galbraith: lo shock di Dallas inghiottì la nazione.

A seguire, le continue tragedie in Vietnam, dove servì, fresco di studi harvardiani, anche uno dei figli, Don Graham. Piano piano la linea pro-LBJ del Post cambiò in relazione al conflitto del Sudest asiatico: il presidente non digerì alcuni editoriali. Tuttavia, a preoccupare Kay erano le primarie repubblicane del Sessantotto: non essendoci più i Kennedy e LBJ, le nuove figure di riferimento a livello nazionale erano a trazione repubblicana – da Richard Nixon a Nelson Rockefeller, da Barry Goldwater a Ronald Reagan – mentre il campo democratico era del tutto indebolito e presentò figure poco carismatiche, come Hubert Humphrey, o impresentabili, come George Wallace. La vita privata di Katharine divenne un tutt’uno con quella personale. Come rappresentato in “The Post” di Steven Spielberg, con il direttore del Post Bradlee (interpretato da Tom Hanks), Kay (Meryl Streep) ebbe un’intesa professionale – lo considerava carismatico e preparato, intelligente e simpatico. I due si volevano bene e la collaborazione venne messa a dura prova negli anni Settanta, quando i due divennero star del giornalismo americano. Con gli anni, la signora Graham introdusse diverse novità nel giornale: dall’ombudsman all’apertura delle pagine di Ed-Op a diversi personaggi della politica nazionale. L’idea di Graham era di creare uno spazio di libertà, in un momento – erano gli anni di Nixon – in cui i giornali erano additati come nemici della nazione dai vertici delle istituzioni del paese.

Lo scandalo dei Pentagon Papers non toccò l’amministrazione Nixon, ma la sfera governativa: LBJ aveva commissionato gli studi sulla guerra del Vietnam a McNamara; l’analista Daniel Ellsberg ne consegnò una parte al giovane Neil Sheehan del New York Times. Quando al corte newyorchese impedì le pubblicazioni degli stralci degli studi, il Post – che si era già impadronito anch’esso dei documenti – sfidò le direttive imposte al rivale e pubblicò i documenti. Continuando il lavoro iniziato dal Times, un gruppetto di giornalisti del Post si radunò a casa di Bradlee e pubblicò gli articoli sulle grandi bugie delle amministrazioni dem sulla guerra del Vietnam. Quando la Corte Suprema ritenne la pubblicazione del materiale sottratto al Pentagono conforme al primo emendamento, fu una grande vittoria per il Post e la stampa. Senza la questione dei Pentagon Papers, il Watergate non sarebbe stato possibile. I giovani giornalisti del Post, Bob Woodward e Carl Bernstein smantellarono la seconda amministrazione Nixon, costretta alle dimissioni.

Furono gli anni d’oro del giornalismo americano e per la carriera della giornalista-imprenditrice-manager Graham, tra tentennamenti e paure di ritorsioni da parte della politica. I report quotidiani sulla saga Watergate assomigliavano ai bollettini della CBS di Walter Cronkite sul Vietnam. Il caso dell’irruzione al quartier generale dei democratici a Washington divenne un caso nazionale. Fu la distruzione di un’intera classe dirigente, un discredito enorme per l’America all’estero, ma un trionfo per la libertà di stampa. Le porte del carcere, sia per il caso Pentagon Paper che per il Watergate, potevano aprirsi per la signora Graham, responsabile della condotta del Post. Katharine riteneva che l’impeachment di Nixon fosse giusto; il giorno delle dimissioni di quest’ultimo, il Post consacrò ventidue pagine agli anni del personaggio che più di tutti li disprezzava. Il pardon di Gerald Ford al suo predecessore fu prematuro, secondo Kay. Il caso Watergate contribuì a fondare un giornalismo più sveglio, atletico, meno timoroso del potere, più aggressivo e partigiano.

Negli anni di Jimmy Carter, Katharine fece una vita più burocratica e meno sulla cresta dell’onda. La signora continuava ad amare il business dei giornali, ma si rese conto che l’era d’oro era finita. Gli anni dell’informatica pervasero anche i quotidiani, ma per Graham furono anche gli anni delle grandi interviste. Il Post era conosciuto in tutto il mondo – e non era più il giornale provinciale di Washington degli anni Trenta – ma quello che faceva le pulci a Mohammad Reza Pahlavi, Muʿammar Gheddafi, Nicolae Ceaușescu, Mikhail Gorbaciov. Silenzio sugli anni di Reagan; in Personal history, Katharine dice di aver apprezzato George H. W. Bush, che preferì al democratico Michael Dukakis. Di esperienza ne aveva accumulata: si era destreggiata nella giungla di Washington, in un ambiente ostile e di vipere, in anni duri e complessi alla luce di una critica – spesso intelligente – al potere di turno.