Teatro

La crudeltà della parola: al LAC il nuovo spettacolo di Carmelo Rifici

Atmosfere crepuscolari, strani oggetti e una polifonia di voci e musica elettronica accompagnano lo spettatore in Relazioni pericolose
© Luca Del Pia
Alessia Blum
Alessia Blum
11.03.2022 17:36

«In principio era il Verbo» cita il famoso inno al logos di Giovanni, ed è proprio la parola a fare da protagonista e da antagonista all’ultimo spettacolo di Carmelo Rifici, Le Relazioni pericolose, in programmazione al LAC di Lugano.

Quanta potenza nasconde il linguaggio, quanto può essere pericoloso? Tema fondamentale già ai tempi platonici, ma ancora incredibilmente attuale tanto da venire usato come fil rouge in questo spettacolo immersivo in cui lo spettatore viene catapultato fin dal primo ingresso in sala.

Lo scorso martedì alle 18.00 presso il LAC di Lugano, in collaborazione con l’Istituto di studi italiani (ISI), si è aperto uno spazio di dialogo e discussione intorno al nuovo lavoro di Rifici, tratto dal celebre romanzo epistolare di Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos che il regista sceglie di riscrivere insieme a Livia Rossi, la quale interpreta una Cécile davvero intensa.

Nello spazio di questa tavola rotonda e grazie agli scambi con figure come quelle di Sara Garau (Professoressa di Letteratura del Sette-Ottocento), Maddalena Giovannelli (Professoressa di Storia del teatro), Marco Maggi (Professore di Letterature Comparate e teoria della letteratura) e naturalmente dello stesso regista, si sono approfonditi concetti come romanzo epistolare e teatralità nella messa in scena della vicenda.

Il romanzo parla attraverso centosettantacinque lettere scambiate fra personaggi della Parigi del Settecento, che sono il pretesto per costruire la storia e le vicende licenziose di queste vite. Giochi di potere e cinismo illuminano di una luce cupa, la facciata di una società aristocratica alla vigilia della Rivoluzione. La Marchesa di Merteuil e il Visconte di Valmont, legati da un’amicizia perversa nata da una vecchia passione, mettono a punto un piano diabolico per far cadere nella loro tela la dolce Cécile de Volanges, la devota Presidentessa de Tourvel e il cavaliere Danceny. Si sfideranno con giochi manipolatori a colpi di parole scritte finché il duello non vincerà i suoi stessi sfidanti culminando nella tragedia già presentita.

Il regista – però – non si è limitato alla trasposizione del romanzo epistolare di Choderlos de Laclos, ma lo ha intarsiato con preziosi intagli di testi in grado di approfondirne e svilupparne una tesi ideologica molto profonda. Questo gioco dialogico con altre opere forma una sorta di palinsesto intertestuale in grado di donare un nuovo significato allo spettacolo che risulta, però, totalmente omogeneo, dimostrando ancora una volta la bravura della regia.

Sicuramente non è facile riuscire a mettere in scena un romanzo fatto tutto di lettere, eppure Rifici riesce nell’intento e lo fa in modo strabiliante, ricreando la storicità delle liaison amoureuse, ma in un contesto scenico quasi onirico.

Prendendo posto in sala si percepisce fin dall’inizio la violenza radicata in un linguaggio bellico che avvolge il palco e che trasporta lo spettatore smarrito in un viaggio crudele grondante di manipolazione.

Questo bisogno di controllo finisce per annientare gli stessi carnefici che si ritrovano a duellare su una scacchiera fatta di soli pezzi bianchi, colori scelti – forse non casualmente – per i bellissimi costumi di scena.

Il pubblico non potrà che apprezzare il raffinato gioco di maschere e disvelamenti messi in scena dal regista che, con l’ausilio di microfoni che abitano la scena, immagini proiettate e macchinari desueti, mostra il fragile equilibrio tra verità e finzione, tra ragione e caos che impernia lo spettacolo. Le voci comunicano tutto: lo fanno attraverso parole sussurrate, urlate, sbraitate e piante; i movimenti sono ridotti ai minimi termini quasi a sottolineare ancora più perentoriamente la forza delle parole.

Certo, il carteggio del romanzo ha permesso una grande libertà nel reinterpretare questa tragedia e Rifici l’ha colta al volo, aprendo il suo copione ad altre presenze autoriali fatte di filosofi, poeti e narratori come Nietzsche, Simon Weil, Pasolini, Calvino, de Sade e Doestoevskij, dei quali si possono cogliere o meno dei riferimenti nel testo, ma senza frammentarlo, anzi, arricchendolo quasi fosse un prisma in grado di restituire un meraviglioso riflesso arcobaleno grazie ad ogni sezione che rifrange la luce.

La riflessione che si può intessere è molto fitta di «relazioni pericolose» con la nostra attualità. Sia nel romanzo sia nella messa in scena si parla di guerra e di malattie contagiose - una casualità quasi inquietante - che fanno da sfondo a un virus ancora peggiore che guasta tutto ciò che incontra come un veleno: la parola. Parola che può distruggere senza toccare, può convincere dicendo bugie e che ha più forza e potere di qualsiasi arma. Tuttavia Rifici ci regala un finale di apertura verso qualcosa di diverso e forse necessario, perché nonostante gli uomini siano ancora uomini e conservino in loro questa barbara capacità di ingannare, potranno – forse – avere la grandezza di riscattarsi.